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GIORNALE STORICO
DELLA
LETTERATURA ITALIANA
SUPPLEMENTO
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GIORNALE STORICO
DIRETTO E REDATTO
FRANCESCO NOVATI E RODOLFO RENIER
SUPPLEMENTO
TORINO
Cai» a Editrice
ERMANNO LOESCHER
1914 t
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PROPRIETÀ LETTERARIA
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Torino — Vikcekzo Boxa, Tip. di 8. M. e de’ RR. Priuei
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Giornale storico <I . letter. Hai. - Supplcin. N. IH.
La chiesa di S. Martino del Vescovo nel 1425
(dal codice di Marco di liartolonimco Rustichi nel Seminario di Firenze, c. 25 a).
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I CANTARI LEGGENDARI
DEL POPOLO ITALIANO
• •
nei secoli XIV e XV.
Sommario: 1. Introduzione. — 2. I cantastorie. — 3. I cantari. — 4. Il Fiore
di leggende. — 5. Il bel Gherardino. — 6. Pulzella gaia. — 7. Làmi-
bruno. — 8. Tre giovani disperati e tre fate. — 9. La donnei del
Vergiù. — 10. Gibello. — 11. Gismirante. — 12. Bruto di Bretagna.
— 13. Madonna Lio nesso. — 14. La regina d'Oriente. — 15. Ma¬
donna Elena. — 16. Cerbino. — 17. Conclusione.
I.
Introduzione.
Io prego voi che ciaschedun m’intenda,
però ohe questo è ’l fior della leggenda.
(Ixi reg . d'Or., Ili, 1, 7).
Nella piazzetta di S. Martino del Vescovo, a Firenze (1), di
tra le torri e i palazzi di pietra, per due secoli, dal Trecento
al Cinquecento, ogni sera risonarono sulla viola dei cantastorie
i cantari leggendari, ch'io voglio far rivivere in queste mie pa-
(1) Presso a S. Martino erano anche le case degli Alighieri. E noto quel
doc. del 1189, nel quale Preitenitto e Alaghiero tìgli di Cacciaguida si ob¬
bligano di far tagliare le fronde di certo loro fico che sporgeva sul muro di
S. Martino. La parrocchia di S. Martino fu soppressa nel 1479 ; e allora la
chiesa fu trasformata e riacconciata di nuovo. Cfr. G. Kioiia s. J., Notizie isto-
riehe delle chiese fiorentine divise ne' suoi quartieri, Firenze, 1754, voi. I,
p. 207 e sgg.; A. Cocchi, Le chiese di Firenze dal sec. XV al XX, voi. I
(quart. di S. Giovanni), Firenze, 1903, p. 118.
Giornale storico — Sappi, n* 10. 1
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E. LEVI
gine. La plebe si affollava intorno ai una panca, sulla quale poi
saliva il cantastorie per recitarvi il suo canto: artigiani, bor-
ghesi e cavalieri, persino gli uomini gravi di scienza e di dot¬
trina ivi convenivano da ogni strada e da ogni sesto della città.
Era uno spettacolo bizzarro e commovente quello della piazza
gremita in attesa delle ottave del « cantare »; e quando il can¬
terino gettava lo sguardo su quel mare di teste, il suo cuore si
gonfiava d’orgoglio e rocchio sfavillava d'ebbrezza:
come gode talora un contadino
quando e’ vede la vigna et le sue prode
preparata et disposta a far del vino,
così son io, e l'animo mio gode,
quand’io sguardo talora in San Martino,
e veggo tanta nobiltà che m’ode! (1).
Erano rozzi ed incolti quei poeti plebei; eppure la loro parola,
squillando tra le facciate di pietra delle vecchio case, aveva in
quei momenti un tono epico che travolgeva l’anima dell’uditorio.
Persino gli umanisti, che dovevano sdegnare quell’arte rozza e
spontanea, si lasciano talvolta sfuggire degli accenti di irrefre-
nata ammirazione di fronte a quegli uomini cosi diversi da loro.
Il Verino (2) in una sua lettera ricorda ancora il fremito susci¬
tato nel suo cuore dal cantare d’ uno di quei poeti da piazza,
Antonio di Guido:
Audìvi ego quondam Antlionium in vico Martini bella Orlandi ca-
nentcm tanta eloquentia ut Petrarcham audire viderer, ut agi non referri
bella putares. Legi post carmina eius, inculta ut alia crederes.
(1) Sono versi d'uno di quei cantampanca, di Cristoforo da Firenze detto
l’Altissimo, nel cantare LIX del Libro dei Reali ; cfr. R. Remek, Sonetti e
strambotti dell'Altissimo, Torino, 1886, p. xm n.
(2) Così una lettera di Michele Verino, Epist. Mi[chaelis] Ve{rini\ Petro
Ridolpho in Michaelis Verini Epist., L. I, n. 64 nel cod. Laurenz. XC
super. 29, c. 20 b. Questo passo è indicato e tradotto da V. Rossi, Il (Quat¬
trocento, p. 288.
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
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E il Fontano nel dialogo De fortitudine domestica (1. 2°) con
pari fervore ci descrive il cantare in panca che faceva tutte le
domeniche il cieco Niccolò da Arezzo:
Dii boni, quam audientiam Nicolaus coecus habebat, cui» festis diebus,
etruscis numeri», aut sacra» historias aut annales rerum antiquarum e sug-
gestu decantabat! Qui doctorum hominum, qui Florentiae tunc erant, con¬
cursus ad eum fiebant!
Le immagini fantasiose del cantare popolavano la mente del
popolo durante le fatiche del giorno, gli ozi, i sogni e i riposi ;
le ottave del cantastorie accompagnavano lo squillo del martello
e il rombo dell’officina. Il Sacchetti (nov. GXIV) ci racconta d’un
fabbro di Porta San Piero che battendo sull’ incudine cantic¬
chiava la Commedia « come si canta uno cantare e tramestava
i versi smozzicando e appiccando »; rimproverato dal Poeta, «se
volle cantare, cantò di Tristano e di Lancellotto e lasciò stare
il Dante ». Francesco da Buti commentando l'accenno a Ginevra
e Lancillotto, che è nel quinto canto d e\Y Infamo, sorvola sul¬
l'episodio, perchè, dice, « è istoria nota » e la « dicono i can¬
tari » (1). Gustoso è l’aneddoto raccontato dal Poggio nelle Fa¬
cezie (LXXXI) : un borghese di Milano « un di di festa udì uno
di quei cantori da piazza, che cantano alla plebe le gesta degli
eroi; cantava costui della morte di Rolando, che era morto da
ben settecento anni in battaglia, e quell’uomo prese a piangere
a calde lagrime; e, quando andò a casa, la moglie che lo vide
piangente, lo richiese qual novità fosse accaduta. « Ahi, moglie
mia — disse — son morto! ». « Amico mio — disse la moglie
— che avversità t’incolse? Vieni dunque a consolarti a cena!».
Ed egli continuava a piangere, nè voleva prender cibo; final¬
mente cedette alle preghiere della moglie e disse la causa del
suo dolore: « Non sai tu che nuova ho io oggi udita? ». «Quale
(1) Francisco da Buti, Comtn. sopra ia « Div. Commedia », Pisa, 1858,
voi. I, p. 171.
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E. LEVI
mai 1 » — chiese la moglie. — « Egli è morto Kolando, ch'era il
solo che difendesse i cristiani ! ». A molti uomini dabbene tutto
quell'apparato fantastico dei cantori faceva dar di volta il cer¬
vello; e sognavano colpi sfoggiati, incantesimi, stregherie anche
quando si richiedeva freddezza di calcolo e spirito pratico. D'un
« gran cantatore di giostra » ci parla il Sacchetti in un sonetto (1);
piena la testa di leggende, con un guazzabuglio di parole fran¬
cesi e fiorentine, egli gridava di voler scontrare Bacchilone e
« Ciarlon imperierò » pur correndo per borgo de' Greci e per
Parione. In un altro sonetto il novelliere si burla ancora delle
vanterie romantiche e romanzesche dei suoi concittadini, dei
quali, dice (2),
ognun vincoria
Tristano, Lancillotto e i cavalieri
del re Artù e tutta baronia.
E chi potrebbe raccontare gli entusiasmi, i rapimenti, gli ar¬
dori suscitati dalla leggenda nell'anima femminile? Tutte le dame
del Trecento dovevano avere una biblioteca press a poco qual’era
quella della vedova boccaccesca del Corbaccio , tutta ripiena dei
fatti di Lancillotto, Ginevra, Tristano, di Isotta e di lor pro¬
dezze «e i loro amori e le giostre e i torniaraenti e le semblee »(3).
Ella tutta si strittola quando legge Lancelotto o Tristano o alcuno
altro colle loro donne nelle camere segretamente e soli raunarsi, si come colei,
alla quale pare vedere ciò che fanno e che volentieri come di loro imagina.
così farebbe, avegna che ella faccia sì che di ciò corta voglia sostiene. Legge
la Canzone dello indovinello e quella di Ilorio e di Biancofiore e simili
cose assai.
(1) Son. « Po’ che la giostra le dame straniere » nell’autografo del Sac¬
chetti, cod. Laurenz. Ashhurnham. 574, c. 40 a ; pubbl. tra le Poesie inedite
di Franco Sacchetti, Roma, 1857, p. 33.
(2) Son. « Firenze bella, confortar ti dei » nell’autografo, c. 3, pubbl. nella
raccolta del Pr. di Vi Ila rosa, voi. IV, p. 197 e nelle Poesie inedite di
F. Sacchetti cit., p. 18.
(3) Il Corbaccio, Parigi, 1569, p. 95.
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
5
II.
I cantastorie.
La storia della giulleria italiana è ancor tutta da fare. I do¬
cumenti abbondano, ina sono un fascio disordinato, dal quale
nessuno ancora tentò di compiere una ragionata rassegna, come
quella che fece il Farai per la letteratura francese (1). Nella
storia della nostra letteratura i giullari hanno un' importanza
per lo meno uguale a quella dei predicatori, degli umanisti e
dei maestri di scuola. In mezzo al tanfo di incenso e di chiuso,
che appesta le scuole e le sagrestie, i giullari portano una fo¬
lata d’aria libera e sana; tra l’uggia delle pedanterie umani¬
stiche e le goffaggini fratesche, essi affermano i diritti della
fantasia sbrigliata e indisciplinata, dello spirito ingenuo e fresco
della plebe. Più io medito sulle vicende della nostra letteratura,
e più mi convinco che, pur essendo belle e rispettabili cose le
cocolle dei frati, i bàtoli degli umanisti, la polvere dei libri e
le raccolte di classiche anticaglie, solo i giullari durante pa¬
recchi secoli furono la letteratura italiana. Se è letteratura
l’espressione diretta ed immediata dell’ anima del popolo, essi
soli hauno il diritto di chiamarsi del popolo i rappresentanti
nella storia ; V altra letteratura, quella delle preziosità e delle
raffinatezze accademiche, delle disquisizioni sofistiche, dei dibat¬
titi di teologia, degli artifici e delle sottigliezze dei cortigiani e
delle cortigiane, non è l’espressione che di una minoranza ri¬
stretta e chiusa, che non ebbe mai, o li perdette assai presto,
contatti con lo spirito vivo e profondo del popolo italiano.
*
(1) E. Farai., Les jongleurs en Vrance au moyen àge ( tìibl . de l'Ecole
des haute»études, voi. CLXXXVII), Parigi, 1910. Qui è data la bibliografia
dev’argomento anche per gli altri paesi, romanzi e germanici.
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E. LEVI
Il piu antico documento sui dicitori dei cantari è quella ben
nota provvisione degli Anziani del comune di Bologna, che nel
1289 vietava ai tagliatori di formaggio, ai giuocatori d’azzardo,
ai biscazzieri e ad altra gente di fermarsi sulle scalèe e sulla
piazza del comune (1):
Cum igitur sermoni divino multa reverenda debeatur, quod placeat con-
scilio et masse populi quod huiusmodi lussores arardi et besca^arie et inci-
sores casei... nec edam cantatore» fran^iginorum in platea comuni»
ad cantandum nec in cirronstan^is platee et palladi comuni» omnino murari
non possint.
Questa consuetudine dei canterini di soffermarsi a cantare
sotto il porticato del palazzo del Comune è assai antica, perchè
anche il giurista Odofredo (f 1203) ricorda certi «joculatores qui
ludunt in puhlico causa mercedis » e « vadunt in curia comunis
* Bononie et cantant de domino Rolando et Oliverio» (2):
... unde domini ioculatores qui ludunt in publico causa mercedis habende
et domini orbi, qui vadunt in curia comuni» Bon. et cantant de domino ro¬
tando et oliverio si prò predo faciunt »unt infames ipso iure quia mercedis
causa ludibriuiu sui corporis faciunt.
A Bologna ci richiama un bellissimo documento di qualche
(1) È nell’Arch. di Stato di Bologna, 1. H, c. 275 b e fu pubblicata molte
volte, ma una sola con esattezza : da F. Pellegrini, lì serenitene dei Lam-
bertazzi e dei Geremei, Bologna, 1892, p. 59. Leggo assai spesso nelle storie
%
letterarie che quei « cantore» franviginorum » erano dei giullari francesi. E
uno sproposito tradizionale di cui ha già fatto giustizia il Gasparv ; quei
€ cantores » erano fior d’italiani, e cantavano di materia francigena.
(2) Il passo è citato da N. Tamassia, Odofredo, studio storico-giuridico,
Bologna, 1894, p. 176 w. ed è tolto dal voi.: « Domini Odof 1 fredi in iure
« absolutissimi | matura, diligentissimeque repetita in j terpretatio, in undecim
« primos | pandectarum libros etc., Lugduni, MDL, c. 100 b, col. 2* ». — In¬
torno a questa testimonianza, che è divenuta assai nota dopo il 1894, cfr.
P. Mkver, De ì'erpatision de la langue francai se en Italie pendant le moyen
àge, negli Atti del Congresso intemaz. di scienze storiche, Poma, 1904
[Sez. di Btoria della lett.], voi. IV, p. 69.
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
7
anno più recente (1). È un processo contro un certo Bonacosa
dei Forti, detto Cesoia, vinattiere, accusato di aver pronunciato
parole scandalose e indecenti contro la parte Guelfa e di aver
insultato e ferito nella strada di Mirasole un certo Ugolino da
Budrio (2). Cesoia invoca parecchi testimoni in sua difesa: un
« Agutus tuscanus qui hospitatur ad hospicium Lance de Ga-
rexendis » e un certo Bonaventura Zamboni, che attesta che nel
giorno del delitto, Cesoia era ben lungi da via Mirasole « in
trivio porte Ravenatis ubi cantatur de f'rancesco ad audiendum
cantare » (3).
E ancor più interessante è il racconto di un altro teste « Zo-
parinus cantator qd. Benincaxe »:
(1) Arch. di Stato di Bologna, quad. Inquisiiionum [1307] della podesteria
di Gerardo Bostichi da Firenze, n° 515, c. 17-18. Ne devo l’indicazione e gli
estratti che ora seguono al cav. Giov. Livi, soprintendente di quell’Archivio.
« — [1307], diejovis xj inadii post nonas incepta fuit inquisitio infrascripta.
« Hec est quedam inquisitio que fit et fieri intenditur per antcdictum d. Po-
« testateni Bononie et judicem maleficiorum contra et adversus Cosolam sive
« Cosam de Fortis qui fuit de Vetrana et nunc habitat Bononie in burgo
« S. l'etri, in Capella S. Martini de Aposa, sive S. Marie de Mascarela, super
« eo et ex eo quod ad aures et notitiam predictorum dominorum Potestatis
« et judicis maletitiorum, fama publica referente et clamosa insinuacene, per-
« venerit quod dictus Cosola seu Cossa de anno et mense presenti in civitate
« Bononie et Capella ... [lacuna dell’orìgin.] ... dixit multa verba inepta,
« indecentia et enonnia in dampnum, detrimentum et subversionem status
« pacifici Comunis et populi civitatis Bononie et partis Jeremiensium et Guel-
« forum, videlicet oportet ut isti Anciani et rectores et gubernatores partis
« Guelfe et Jeremiensium nunc regnantis in civitate Bononie omnino de-
« struantur et in nichilum deducantur.
(2) Ib., c. 18 a: * Notifìcatur vobis etc. quod Bonacosa sive Cosa de Fortis
« qui fuit etc. precio vel precibus Laurenci, cui dicitur Lem;us, filius qd.
« domini Jacobi de Bonacaptis fuit ad insultandum et vulnerandum cum armis
« vetitis et non vetitis Ugolinum qd. d. Libertini de Butrio et eum percussit
« et vulneravit etc. Et predicta fueruntde predicto mense madii in contrata
< Mirasolis posita Bononie in via publica etc. ».
(3) Da un fascicolo sciolto di 10 cc. appartenente al quad. Testium della
podesteria di Gerardo Bostichi da Firenze [1307], non numerato nè cartolato,
scritto dal not. Dainesio de’ Dainesii da Ferrara, e ritrovato tra altri fram¬
menti sincroni dal cav. Livi.
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E. LEVI
... «lui» ipse testis vellet incipere cantare post pramliuin, immediate vidit
dictuin Tosolam una cum Avito de Florentia stratarolo et Andrea can¬
tatore de Florentia venientes ad invicem et intrare bandi am
ubi cantatur super trivio Porte Ravennati», et ibi steterunt usque quasi
ad horam none et usque quo finitum fuit primum cantare, et finito
dicto cantare, dicti Cosola et predicti receserunt, et nescit ipse testis quo
iverint, et postmodum quasi immediate dictus Cosola redivit ad audiendum
secundum cantare quod incepit pariter post noiias et ibi stetit usque
quasi ad horam vesprarum... justa Torini de tìaresendis ubi ipse testis can-
tabat. — Interrogatus de quo cantabat ipse testis, respondit quod ipse oan-
tabat de Guielmo de Orenga ».
K sfilano altri testimoni e ciascuno reca qualche nuovo par¬
ticolare pittoresco e bizzarro ad integrare la scena di quel can¬
tare domenicale; Paolo di Bertolameo « vidit dietimi Cossolam
« sedere super quodam banche ibi posito ad audiendum cantare
« de francesco sive de paladino »:
Interr. in qua parte trivii fuit dietimi cantare et stabat dictus cantatur ad
cantandum respondit quod in trivio j>orte Ravenatis ad umbram doinorum
illoruin de Garexendis, sive umbram Ecclesie Sancti Marchi.
Un altro testimonio riferisce che il cantastorie era zoppo,
donde probabilmente il nome Zopparino, e che cantava « ut sibi
videtur, de Guielmo de Orenga » (1); un altro ancora assicura
di aver visto Cosola « sedente»! super quodam bancho ibi posito
« ad audiendum cantare » e interrogato di quale leggenda si
cantasse « respondit quod de francisco, seti non recordatur de quo
francisco ». Il quadro diventa di mano in mano più compiuto,
vivace e pittoresco. Siamo nel centro della vecchia Bologna, in
un trivio affollato, proprio all'ombra della torre Garisenda, dove
Dante s’era soffermato a guardare le nuvole fuggitive pe’1 cielo
(Inf., XXXI, 13(5). Nella breve piazza sono collocate delle file
(1) « Albertus Zanis ile Rayneriis: ...ad audiendum cantare de francisco...
« Interr. quis cantabat, respondit quod quidam zopus ».
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
9
di panche; e vi è una panca più alta destinata al cantore. Le
panche sono presto riempite dal multicolore pubblico domeni¬
cale; cuffie, cappucci, becchetti, guarnacchie, guagnele, oppe-
lande e farsetti. Allo scoccare dell’ora di nona (alle tre del po¬
meriggio) il canterino, che è zoppo e si chiama Zoparino di
Benincasa, incomincia il suo canto; frammischiato tra la folla
un altro canterino, Andrea da Firenze, lo sta ad ascoltare. Pas¬
sano con ritmo misurato i versi di un cantare; e poi quelli di
un secondo, finché cala la sera e squillano alla chiesa di San
Marco le campane del vespro. Gli spettatori, interrogati dal giu¬
dice de' maletìzi qualche giorno dopo, più non ricordano con
precisione l’argomento del cantare; soltanto dicono che si can¬
tava « de francisco sive de paladino », cioè di un personaggio
della leggenda. Due di essi, frugando nella memoria, ricordano
che quel « paladino » era Guglielmo d’Oringa.
La leggenda di Guglielmo d’Orange era infatti delle più dif¬
fuse e fortunate tra noi; ma al principio del Trecento già in¬
cominciava a sfiorire. Sarà utile ch’io richiami queirimportante
luogo delle glosse ai Documenti duntore di Francesco da Barbe¬
rino, dove si passano in rivista i temi leggendari più favoriti (1):
Tristanuin propterea non obmictes. De paladini* autem loqui hodie vi-
detur exosum nec multimi cara lectura gestuum Gui 11 e 1 mi de A u ringia
et similiuin, quorum fabule tam aperta fingunt mendacia. Novitates tamen
palatij dicti Guillelmi adirne indicant ipsum maglia ferisse.
Un’altra bella ed antica testimonianza della diffusione dei can¬
tari e dei cantastorie nell’ Italia settentrionale si ha nel com¬
mento dantesco del bergamasco Alberico da Kosciate, composto
(1) I documenti d'umore di Francesco da Barberino secondo i manoscritti
originali a cura di F. Egidi, Roma, 1903, voi. I, p. 101. I Documenti fu¬
rono composti nel tempo stesso di quella recitazione bolognese; pensati tra
il 1297 e il 1300, furono condotti a termine tra il 1308 e il 1309 e copiati
prima del 1318 nell’autografo barberiniano. — Nell’inventario del 1407 della
biblioteca dei Gonzaga due mss. hanno il titolo: « Guilielmus de Orenga ».
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K. LEVI
tra il t343 e il 1349 (1). Nel proemio al primo canto dell'/n-
fcrno egli vuol spiegare r origine e la natura del nome Com¬
media « que ab antiquo tracta fuit a rusticis ex sonitu fistu-
larum ». E prosegue:
Unde postea apparuerunt comedi idest socij, qui pariter recitabant comedias,
idest magnalia que occurebant, unus cantando alter succinendo et respondendo.
Et isti comedi adhuc sunt in usu nostro et apparent maxime in partibus
Lombardie aliqui cantatores qui magnorum dominorum in rìthmis cantarit
gesta, unus proponendo, alius respondendo (2).
Questa consuetudine del cantare alterno spiegherebbe assai
bene la presenza contemporanea di due canterini, Andrea da
Firenze e Zoparino, tra le panche di porta Ravignana a Bologna.
« Specialmente nei territori della Lombardia » dice Alberico; e
infatti i più frequenti accenni alla recitazione dei cantastorie si
trovano in carte venete, emiliane e lombarde. Un frammento
d’un carme latino, composto alla fine del secolo XIII da un tri-
vigiano, ci descrive la folla che circonda in una piazza un can¬
tore, il quale, salito su una panca, « francorum dedita lingue
« Carmina barbarico passim deformat hiatu ». Canta di Carlo-
magno e delle gesta francesi ; « pendet plebccula circura auribus
arrectis » (3). Ed a proposito del vecchio teatro di Milano il cro¬
nista milanese Galvano Fiamma dice che un tempo vi si rappre¬
sentavano scene istrionesche « sicut nunc in foro cantatur de
Rolando et Oliverio » (4).
Un’altra piazza in cui si cantò in panca fu quella di S. Michele
(1) Così L. Rocca, Ballettino <1. Società dantesca dal. N. S. , III, p. 53.
(2) Cfr. A. Fiammazzo, Il commento dantesco di Alberico da Rosciate col
proemio e fine di quello del Bambaglioli, notizia del cod. Gruinelli raffron¬
tato col Laur: PI. XXVI sin. 2, Bergamo, 1895, p. 11. — Richiamò la mia
attenzione su questa bella testimonianza il prof. Vittorio Rossi.
(3) Cfr. F. Notati, Attraverso il Medio Km, Bari, 1905, p. 298.
(4) Il passo, reso popolare dal Muratori, Antiq. Ital. M. Aevi, II, 844,
fu illustrato da P. Rajna, Il teatro di Milano e i canti intorno ad Orlando
e Ulivieri, nell’Arc/t. star, lombardo, XIV' (1887), p. 5 e seg.
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
11
in mercato, a Lucca. Era uno dei più bizzarri angoli dell’Italia
medievale ; vi soleano dimorare « ribaldi, iocatori, corrieri » e
« sempre e d’ogni tempo se ne vedea ». Durante la signoria di
Castruccio Interminelli (1315-1328) frate Stoppa, composta la sua
« morale » sulle mutazioni di fortuna, « quella disse cantando
in sulla piazza di Santo Michele in mercato, dove vi fu a udirla
gran parte di Luca» (1).
Tra i cantastorie lucchesi divenne celebre alla fine del Tre¬
cento un fiorentino, Andrea di Goro dall’Ancisa, rifugiatosi a
Lucca dopo il tumulto dei Ciompi (1383). « Il suo mestiere prin-
« cipale era di cantare in piazza le prodezze dei paladini di
« Francia e quindi la qualità di cantore o cantatore gli viene
« attribuita quasi sempre nelle storie e talvolta nei documenti.
« Al cantare congiungeva però altre industrie egualmente piaz¬
ze zaiuole ed ignobili, come d’intrigarsi in appalti di dazi plebei,
« prestare servigi di guardia o, come oggi si direbbe, di polizia,
« star mallevadore in cause criminali, e fino a dare la testimo¬
ne nianza fiscale delle esecuzioni di morte ». Nei tumulti tra le due
fazioni dei vecchi cittadini e quella dei Guinigi, maestro Andrea
fu pei Guinigi e dei più violenti, maneschi e riottosi; il 12 maggio
del 1392 capeggiò la folla all’assalto del palazzo pubblico, dove
fu trucidato e gettato dalla finestra il gonfaloniere Forteguerra
de’ Forteguerri. Per queste belle imprese, dopo il trionfo dei
Guinigi, ebbe in premio una provvigione annua, che fu poi accre¬
sciuta a dodici fiorini per altre insigni benemerenze di quella
fatta. Morì prima del novembre del 1413 (2). Quando Paolo Gui¬
nigi aveva da trattare con Firenze, dice il cronista Giovanni
Morelli (3), « non ci mandava mai per ambasciadore, se non il
(1) Giovanni Sercambi, Cronache, voi. Ili, pp. 274-324.
(2) S. Bonoi, Le « Cronache » di Giov. Sercambi lucchese, pubbl. sui inss.
originali, Lucca, 1892, voi. I, pp. 452 e segg.
(3) Il passo di Giov. Morelli ( Cronaca, Firenze, 1718, p. 223) fu messo
in evidenza da A. D’Ancona, I canterini dell'antico comune di Perugia, nelle
Varietà storiche e letterarie, 1* Serie, Milano, 1883, p. 71.
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12
E. LETI
« maestro Andrea, che cantava de’ Paladini e era nostro con-
« cittadino e avea bando di qua; e ciò facea per dilizione ». Non
so in quale rapporto fosse questo maestro Andrea da Firenze
della line del Trecento con quell'altro maestro Andrea che ab¬
biamo sorpreso a cantare a porta Ravignana di Bologna nel 1307.
I)a Lucca venne più tardi a Perugia un celebre eantampanca,
maestro Angelo (1478), del quale erano sopratutto apprezzate le
storie d’argomento romano e il « cantare de iinproviso canti-
« lenas romanorum antiquorum vel alias notabiles » (1483).
Anche a Siena la giulleria lasciò un solco profondo nelle
memorie letterarie. È ormai nota a tutti la provvisione del co¬
mune Senese perchè si pagassero cento soldi di danari a Gui-
daloste, giullare pistoiese, che aveva composto « quandam bal¬
latala de Torniella » cioè una ballata sulla presa del Castello
di Torniella nel 1255 (1). Questo Guidaloste da Pistoia era un
povero giullare, che qualche anno più tardi troviamo al servizio
del conte [Guido di Adinolfo?] da Romena. 11 conte una volta
invitò Guittone d’Arezzo a tenzone con Guidaloste ; ma l’aretino
non volle raccogliere la sfida flett. XI]. Contro Guidaloste è di¬
retto un altro componimento di Guittone, il sonetto O Guida¬
loste, assai se’ lungiamente , nel quale si ha qualche partico-
(1) Il doc. fu indicato nel Manuale di A. D’Ancona-O. Bacci ,0 , I, 34 e da
A. D’Ancona, 7 ai jtoesia jwpol. ita 7.*, Livorno, 1906, p. 6. Eccone il testo
preciso, che mi fu gentilmente trascritto dal cav. F. Donati, direttore della
Biblioteca comunale di Siena: « Item C solidos denariorum Guidaloste jocu-
< latori de ('istorio prò uno pario pannorum ex forma Consili Campane, qui
« fecit cantionem de captione Tornelle » (Arch. di Stato di Siena, Biccherna,
voi. XXIII, c. 23 a). Le deliberazioni del Consiglio di Campana sulla presa
di Torniella sono state pubblicate da L. Zdekaier, Im vita pubblica dei Se¬
nesi nel Dufjento, Siena, 1897, p. 112 e segg. Intorno alla lettera XI di
Guittone e al sonetto contro Guidaloste cfr. G. Zaccaunini, I rimatori pi¬
stoiesi del sec. XIII e XIV (Biblioteca di autori pistoiesi, voi. II), Pistoia.
1907, p. xxxm e sgg. Non mi pare probabile fidentifìcazione di quel Guida¬
loste giullare con un ser Guidaloste di Bonaguida notaio (+ 1289), proposta
da G. Za oc agnini, Studi e ricerche di antica storia letterarui pistoiese, Pi¬
stoia, 1910, p. 35 e sg.
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I CANTASI LEGGENDARI ITALIANI
13
lare non privo d'interesse intorno ai pubblici « vanti » consueti
a quei cantastorie:
9 E tu vai predicando ’n ogni canto
a’ fanciulli, a' villani ed a catono
che giostre molte ài vinte e prò’ se’ manto.
Ciascun biasmi e reo teni, te bono:
13 onde te pregian matti e credon tanto.
9
Un altro vero e proprio cantastorie senese era quel Ruggieri,
che, secondo quanto egli stesso ci narra in un bizzarro compo¬
nimento, la Passione , nella seconda metà del sec. XIII (1262 ?)
fu tratto davanti al tribunale dell’inquisizione (1). Che egli fosse
un cantastorie, ci vien proclamato apertamente dal vescovo che
presiede quel giudizio che è burlescamente riferito nella Pas¬
sione :
62 Tu se’ facto un grande predikatofe
novelliero e dicitore...
L’accusa più grave ù quella di aver mangiato con dei pate¬
rini; al che Ruggieri ingenuamente risponde:
Omo di mia arte non si puoe ischusare
ki lo ’nvita, ke non vada a mangiare.
« Era proprio dei giullari, annota il Torraca (2), non solo ac-
« cettare ogni invito, ma spesso e volentieri invitarsi a conviti
« e a feste, da sè. Questa interpretazione è confermata dalle
«parole che il rimatore mette in bocca a uno de’ suoi nemici:
Non è questi Rugieri
k’io audii e vidi l’altrieri
cantare inansi kavalieri...? »
(1) « La Passione di Rugieri » in Rime antiche senesi, trovate da E. Mol-
teni e illustrate da V. de Bartholomaeis, Roma, 1902, p. 13-17.
(2) F. Torraca, Per la storia letteraria del sec. XIII (IX, Ruggieri Apu¬
gliesi), Napoli, 1905, p. 15 e sgg. .
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14
E. LETI
A questo giullare senese si vuole attribuire anche la canzone
« Umile sono ed argolglioso » che nel codice (1) reca in fronte
il nome di « Rugieri Apugliese » e finisce:
43 Ugieri apulgliesi conti, Dio convive a fortti ponti
cavalieri, marchesi e conti lo dicono in ogne parti;
ché mali e beni a llui sono giunti.
E a lui un codice fiorentino del Quattrocento assegna un altro
componimento di spiccato carattere giullaresco, le Arti , che è
una redazione toscana del Serrentese del maestro di tutte
farti, meridionale (2). Se si aggiungono a questi tre compo¬
nimenti un contrasto tra Ruggieri e un Provenzano (3), che
secondo ogni verosimiglianza è il dantesco Provenzan Saivani,
e una cantilena morale firmata (4):
Io fui Ruggieri Apugliese dottore
che mai mi fidai del mondo ingannatore.
si ha un bel mazzetto di rime, dal quale si potrebbe con qualche
industria far balzare la figura compiuta e vivace di un antichis¬
simo cantastorie.
Simile alla provvigione del 1255 per la ballata di Torniella
è un altro mandato di pagamento che si ritrova nei documenti
senesi del 1321. In esso si ordina di pagare il dono di una tunica
a un cantastorie che aveva composto e cantato una canzone in
onoro degli scolari trasmigrati a Siena dallo Studio di Bologna.
«
Al periodo aureo del cantare in banca appartiene un altro
senese, Pietro di Viviano da Strove, chiamato comunemente Pier
(1) E. Monaci, Crestoni, ital . dei primi secoli, II. 209.
(2) Le Arti di Ruggeri Apugliese per cura di S. Morpcrgo, Firenze, 1894
(Nozze Gigliotti-Michelagnoli). Sulla questione cfr. V. Cian, Pel serventese
del Maestro di tutte farti, in questo Giornale, 89, 454 .
(8) V. De Bartholomaeis, Rime antiche senesi cit., n. Ili, pp. 22-29.
(4) Fu pubblicata, da un cod. senese del Quattrocento, da P. Papa, La leg¬
gerla di S. Caterina di Alessandria in decima rima, nella Misceli, nuziale
Rossi-Teiss, Bergamo, 1897, pp. 478 e segg.
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
15
Canterino. Egli nacque nel 1343 (1); nel 1398 era agli stipendi
del Comune senese e nel 1410 dava l’ultima mano a un suo ter¬
nario, il Papalisto. Lasciò, oltre qualche minore componimento,
tre cantóri sulle esequie rese a Giangaleazzo Visconti, e otto
cantari leggendari, tratti da un poemetto francese, La bella
Camilla.
Che anche a Pisa si cantasse in banca, su per le piazze, si
può arguire dal fatto che non pochi manoscritti di materia leg¬
gendaria sono di provenienza pisana ; e d’un cantare, la Donna
del Vergiti , non si conosce nessun altro testo all’infuori di due
codici pisani del Quattrocento. Tutto un libro di « dilettevole
storie e cantari in versi composti da più persone valentissimi »
mise insieme proprio a Pisa nel 1481 un certo Fruosino da Ve-
razzano « sendo castellano del Palazzotto di Pisa, per piacere» (2).
Un cantastorie pisano del principio del Quattrocento era quel
Pucino d’Antonio, al quale si deve il vivace e forte lamento di
Pisa (1406) e la Risposta che fa l'imperatore. Di qualche
decennio più tardo è Michelagnolo di Cristofano da Volterra
(n. 1464), die nel 1487, essendo trombetto del capitano di Pisa,
compose la Storia del conte Ugo d’Alvemia , e poi il cantare
in ottava rima delle Mirabili et inaldite belleze e adotta¬
menti del Camposanto di Pisa (3). Anche Perugia ebbe, at¬
traverso tutto il Quattrocento (4), una serie ininterrotta di can¬
ti) La data della nascita si desume da quel che dice Pier Canterino stesso
nel Papalisto : egli lo finì nel 1410, in età di 67 anni. Le notizie della vita
e il docum. senese del 1398 son tratte da F. Novati, Attraverso il Medioevo,
rit., pp. 331-348.
(2) Cod. Riccard. 2733 ; cfr. il Fiore di leggende, p. 353.
(3) Edito di su una stampa della bibl. parigina dell’Arsenale da I. B. Su¬
pino, Il camposanto di Pisa, Firenze, 1896, p. 300 e segg.
(4) I docum. perugini furono pubblicati da Adamo Rossi, Memorie di mu¬
sica civile in Perugia, nel Giornale di erudizione artistica, voi. Ili ed ana¬
lizzati da A. D’Ancona, Musica e poesia nell’antico comune di Perugia,
nella Nuova Antologia, voi. XXIV, 1875, p. 55 e segg. Questo articolo fu poi
ripubblicato col titolo: I canterini dell'antico comune di Perugia nel voi.
Varietà storiche e letter., l a Serie, Milano, 1883, pp. 39-73.
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E. LEVI
tastorie. Fino dal 1385 era uso costante del Comune perugii ■
di chiamare al suo servizio dei canterini, che dovevano ralle¬
grare i pranzi dei priori e le pubbliche feste con suoni di chi¬
tarre e col canto di poesie : verbi #, soni# et canti#. Più tardi,
nel 1431, si concedette a quel canterino di uscire in piazza,
finita la cena dei Priori, e di cantare all'aperto «coram populo».
Il cantore soleva raccogliere all' intorno l’offerta di pochi soldi
dagli spettatori; ma nel 1461 gli si vieta di far la questua. E
allora egli domanda ed ottiene che le panche siano provvedute
dal Comune e che dal Comune sia pagato l'inserviente che do¬
veva porle e levarle e di « canore diebus festivis, in estate in
« plateola sante Marie de mercato et in ionie in palatio pote-
« statis ». L'entusiasmo suscitato da questi cantari in panca fu
cosi grande, che le recitazioni dovettero essere fissate periodi¬
camente, mese per mese, come uno degli atti più belli della
vita pubblica della città e più necessari al ritmo sano e misu¬
rato di essa.
11 fervore del popolo è ormai tale che la Chiesa incomincia ad
impensierirsene e getta degli sguardi obliqui e corrucciati sopra
quella gioconda ebrezza della libera fantasia e del sentimento.
Gli statuti di Tolentino (1), ad esempio, vietano ai cantastorie,
precisamente come le Provvisioni degli Anziani di Bologna, di
soffermarsi accanto alle chiese a cantare.
Ed eccoci giunti, dopo questa scorreria attraverso l'Italia gaia
e serena del buon tempo antico, all'estremo della penisola. Siamo
a Napoli, nelLanno 1471. Sulla piazza che s'apre davanti al¬
l'Accademia « irrompe con allegro frastuono una turba di sea-
« miciati dietro un altro poeta, il cantastorie. Sdegnosi di si
*
« volgare mascherata i due eruditi (il Fontano ed Enrico Po-
« derigo), anzi tutti gli interlocutori del dialogo, si allontanano,
« mentre il cantore popolare.... costruisce il suo palco, prepara
« i sedili, ottiene il silenzio. Costui non è solo: inferiori a lui
(1) Coinunic. del prof. Lodovico Zdekauer.
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Tav. II.
Giornale storico ri. letter. ito!.
Supplein. X. 16.
Il Ctintuinpuiicu
(ila due stampe popolari della Marciana).
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
17
« nel grado e soci, direm cosi, nell'azienda, vengono un buffone,
« che funge da Prologo, ed un trombetta od araldo. Al popolo
« seduto parla prima il buffone, raccomandando 1’ attenzione e
«promettendo in compenso un bicchier di vino; quindi espone
« l'argoinento della storia di quella giornata. Sale allora in panca
« il poeta e per un' ora racconta imprese guerresche, urto di
« eserciti, battaglie e sfide. Succede un intervallo di riposo, col-
« mato dalla voce lepida del buffone ; poi il primo ripiglia, finché
« la narrazione viene dal tempo, non dal tema, troncata, per es-
« sere ripresa il giorno dopo » (1). Cosi racconta il Fontano in
uno dei suoi dialoghi più vivaci e più belli, VAntonius (1488).
Quella scena scomposta, bizzarra e plebea irrita il Pontano, che
esclama: « Et hoc quoque recens Cisalpina e Gallia allatum est!
« Deerat unum hoc civitatis nostrae moribus tam concinnis ! ».
Il cantaro in panca era dunque una novità d’importazione
forestiera nel Mezzogiorno, venuta dalla «Gallia cisalpina»,
nella quale forse -il Pontano intendeva di comprendere anche
Firenze.
Infatti Firenze è per tutto il Quattrocento «la cava dei can¬
terini »; a Firenze nel 1477 il comune di Perugia mandava a sce¬
gliere il nuovo canterino, poiché ivi « sunt, dice il documento,
« multi et ydonei liomines et ad dictum exercitium intelli-
« gentes ». E nel 1478 da Perugia partiva addirittura alla volta
di Firenze uno speciale corriere « prò inveniendo et conducendo
« unum canterenum ydoneum et doctum » (2).
La bella tradizione fiorentina risale a tempi assai antichi ; dei
fasti dei cantastorie, dei giullari e degli uomini di corte fioren¬
tini, Ciacco, Biondello, Agnolo Doglioso, Gian Sega, il Gonnella,
Passera della Gherminella, Dolcibene, il Capodoca, sono piene
(1) Sono parole di B. Soldati, Improvvisatori, canterini e buffoni in un
dialogo del Pontano, nella Misceli, di studi critici pubbl. in ornare di Guido
Mazzoni, I, pp. 321-342.
(2) A. D’Ancona, Varietà storiche cit., p. 63.
i
Giornale storico — Sappi. n° IO. 2
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18
E. LETI
le novelle antiche, le novelle del Boccaccio e del Sacchetti (1).
Le sparse memorie di altri cantori popolari fiorentini, quali
Zaffarino e Niccolò Povero, io stesso ho cercato di raccogliere
e di illustrare in una serie di lavori tutti diretti a convergere
la luce sulla poesia spontanea e primitiva del popolo italiano
alla vigilia del Rinascimento (2). È pure noto per le ricerche del
Novati (3) che nel palazzo del Comune non mancò mai nel Tre¬
cento il referendario , cioè il canterino che doveva rallegrare
le cene e le veglie dei Priori : a tale ufficio fu eletto nel 1352
Iacopo Salimbeni, nel 1375 Geronimo detto Puccio del popolo
di S. Apollinare, nel 1377 Giovanni di Giorgio, nel 1393 Antonio
di Pietro di Friano, nel 1394 Checco di Gherardo del popolo di
S. Lorenzo. Oltre a questi canterini regolarmente stipendiati si
vedevano spesso, su e giù per le scale del palazzo dei Priori,
dei liberi cantastorie, che venivano ad offrire i loro servigi o
a reclamarne premio e mercede; ed erano Benuccio barbiere, il
Ricca, Sergio da Pola ed altri ancora (4). Nè i privati cittadini
volevano essere da meno dei signori di palagio; i giovanotti,
dice un sonetto del Trecento (5),
prendano soggiorno
con son&tor dintorno
e cantatori e dicitori in rima.
(1) Cfr. F. Colagrosso, Oli uomini di corte nella Die. Comm., in Studi di
letter. ital., II, p. 24 e sgg.; G. Bonifacio, Giullari e uomini di corte nel '200,
Napoli, 1907.
(2) Ezio Levi, Zaffarino e le sue nozze con madonna Povertà, 1908
(Bullett. critico di cose francescane, III, 1-18); Le paneruzzole di Niccolò
Povero, 1908 (Studi medievali, III. 81-108). Su Dolcibene il mio Vannozzo,
p. 109; sulla poesia popolare nel Trecento il Vannozzo, p. 355 e sgg.; La
ballata « Poi che zonta se' al partido » in questo Giornale, 58, 272 ; Can¬
tilene e baruffe chioggiotte nel Trecento, pure nel Giornale, 61, 345 .
(3) F. Novati, Le jtoesie sulla natura delle frutta e i canterini di Firenze,
nel voi. Attraverso il Medio Evo cit., p. 327 e segg.
(4) Cfr. F. Novati, Op. cit., p. 342 e segg.
(5) Cod. Magliai). VII. 1066, c. 18 b. Ricorderò ancora che un « maestro
Luigi cantatore » fu posto allo specchio nel 1385 (Arch. di Stato di Firenze,
Tratte, voi. 1137, c. 74, S. M. Novella, Drago verde).
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I CANTASI L1GGBNDABI ITALIANI
19
Ben presto il centro della giulleria fiorentina divenne la piaz¬
zetta di S. Martino, sicché ad indicare la professione di dicitore
è frequente nei documenti la frase : « che canta in San Martino »
o « cantatore in San Martino ». Non credo che il Pucci, che aveva
un ufficio regolare nel Comune, mai vi cantasse in persona; certo
però vi furono recitati dai cantampanca i suoi cantari leggen¬
dari. Sulla panca di S. Martino si presentò invece Andrea di Tieri
da Barberino, come egli stesso denunziò nella portata al catasto
del 1427 (1). Il più celebre di quegli uomini di San Martino,
« colui che ha passato ognuno in queH’arte », come lo proclamò
il cronista Luca Landucci, fu per molto tempo Antonio di Guido
(1437 c.-1486), così da suscitare le ire e l’invidia di un altro
cantore, Antonio di Cola Bonciani (f 1439). In S. Martino cantò
maestro Antonio da Bacchereto, che barbieri fu e ora canta
in panca, avverte un copista. In S. Martino accese entusiasmi
ed assensi il prodigioso cieco di Arezzo, maestro Niccolò, da¬
vanti al quale chinava la fronte anche Giovanni Pontano. Il
cieco abitava nella casa di Michele del Giogante ; nel dicembre
del 1435 al suo ospite egli volle rivelare il segreto della sua
memoria tenacissima, gli artifici con i quali il suo pensiero si
+
ingegnava di supplire all’aiuto dei poveri occhi spenti (2). Oh,
il fremito di pietà che doveva tremare in quella voce sonora,
quand’essa rievocava le grandi immagini pittoresche dei pala¬
dini e degli eroi, le quali avevano per tutti, ma non per il loro
creatore, luce, linea e colori!
(1) F. Flamini, La Urica toscana del rinascimento anteriore ai tempi del
Magnifico, Pisa, 1891, p. 158.
(2) Cfr. F. Flamini, Op. cit., p. 188; 0. Bacci, Un trattatello di Michele
del Giogante, in questo Giornale, 32, 327, poi nel volume Prosa e prosa¬
tori, Palermo, 1907.
%
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20
■ . LIVI
III.
I cantari.
Una parte del fascino di quella poesia è ormai spenta per
sempre : ci rimane la parola, ma è perduta la musica che le era
compagna. Che i cantóri si cantassero coiraccompagnamento di
istrumenti musicali, lo dicono i numerosi documenti fiorentini
e perugini che ricordano pifferi, ceramelle, chitarre, viole, e lo
dice quel celebre passo dello Specchio della vera penitenza
del Passavanti che descrive i canterini in atto di fare « i gran
colpi pure con l’archetto della viola » per coprire il brusio della
folla turbolenta e agitata (I). Un cantastorie col violino sulla
spalla e l’archetto in pugno è raffigurato sul capitello d’una
delle colonne del porticato esterno del Palazzo Ducale a Ve¬
nezia (2). Appunto per l’irrequietezza di quel pubblico indisci¬
plinato il cantare non poteva essere troppo lungo; di rado su¬
perava le cinquanta ottave. Il Passavanti avverte che « non è si
bella canzone, quand'ella è troppo lunga, che non rincresca»;
e l’Altissimo confessa, interrompendo bruscamente il canto XIX
del primo libro dei Reali :
per oggi più non canto in San Martino,
perchè lunghi cantar son sempre brutti.
Per questa ragione nel Fiore di leggende ho spezzato in pa¬
recchi cantari quei poemetti che nei codici e nelle stampe se-
(1) I. Passavanti, ho specchio delta vera penitenza, Firenze, 1863, p. 283;
cfr. A. Montevkrdi, Gli esempi dello « Specchio di vera penitenza »,in questo
Giornale, 61, 267.
(2) È riprodotto da P. Molmenti, Storia di Venezia nella vita privata 4 ,
Bergamo, 1905, p. 413.
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I CANTASI LEGGENDARI ITALIANI
21
guivano senza interruzione dal principio alla line, come, p. es.,
i Tre giovani disperati e il Gibello.
I cantari non erano destinati alla lettura e alla meditazione ;
ma si recitavano a memoria con la rapidità di cosa improvvi¬
sata. Questo fatto spiega gli scorci delle figure, le ingenue pit¬
ture d’ambiente, i trapassi degli argomenti, perchè diversa è la
prospettiva dei libri destinati agli occhi da quella delle opere
fatte per l’udito. I cantari serbano tracce evidenti della reci¬
tazione sulle panche nelle formule con le quali essi si aprono
e chiudono, formule convenzionali e tradizionali come sono ancor
oggi tanti altri elementi del teatro. Se la lirica, che è arte indivi¬
duale, ha per fondamento la verità dell’espressione, ogni forma
di arte sociale ha invece a fondamento una convenzione, un rap¬
porto di luci ad ombre, di linea a linea, di colore a colore.
Ogni cantare ha al principio e alla fine un’ottava nella quale
è racchiusa l’invocazione a Dio e ai Santi. Naturalmente queste
invocazioni potevano mutare, mutando le circostanze e la per¬
sona del cantastorie, sicché è frequente il caso di cantari con
duplice o triplice inizio, oppure di cantari senza inizio e senza
fine (1). Il fatto che l’ottava iniziale era una formula conven¬
zionale, senza connessione col resto, ci spiega perchè i due can¬
tari di Bruto e di Gismirante abbiano la prima ottava identica.
II canterino raramente inventava l’argomento del cantare o
componeva a capriccio sopra la trama di lontane letture; il più
delle volte aveva sott’ occhio un libro latino o francese e da
*
quello traeva direttamente la materia della sua poesia. E assai
difficile precisare dove finisse la composizione originale e dove
invece incominciasse la traduzione. Il rispetto per il pensiero
altrui è uno scrupolo moderno ; forse perchè era più forte e più
schietta della nostra, la fantasia degli antichi non tollerava legge
e tendeva al successo mediante ogni più indisciplinato capriccio.
(1) Il cantare dei Tre giovani ha nelle stampe due diverse ottave iniziali;
Bruto manca dell'ottava finale.
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22
Z. LEVI
Nel Gismirante (II, 2) il Pucci ci rivela ingenuamente come
dai libri egli venisse traendo i cantari :
per darvi diletto chiaramente
di novità, cercando vo le carte
e quel che piace a me, vi manifesto.
Questa maniera di comporre spiega la fecondità dei canterini
e ci obbliga, per ben intendere il testo, a ricercarne la fonte.
Il caso della « storia del cavaliere brettone » di Andrea Cap¬
pellano, tradotta alla lettera nel Bì'nto, è caratteristico. Ma la
ricerca delle fonti è assai difficile, perchè la leggenda medievale
è sconfinata e le indicazioni fornite dai cantastorie sono ben po¬
vera cosa. Il Pucci dice di aver tratta la Regina (l’Oriente da
un libro che gli pare « degli altri il fiore » (I, II, 2); il Gismi¬
rante « da una storia novella » ; il cantastorie del Gibello di¬
chiara di trarre le sue informazioni da « un libro » (LXI, 8),
senz’altro. Dietro i cantari si spalanca in tutta la sua immensità
l’intera letteratura del Medioevo.
Sebbene i cantari appartengano a regioni e a tempi assai dif¬
ferenti, essi formano una compagine cosi omogenea che è im¬
possibile giudicare e studiare l’uno senza conoscere tutti gli
altri. Il primo cantare del Fiore di leggende, il Bel Gherardino,
è anteriore al 1354, l’ultimo, il Cerbino , è dei primi anni del
Cinquecento; quattro sono di Antonio Pucci, altri sono di canta¬
storie settentrionali o almeno non toscani. Eppure, leggendo, essi
ci appaiono tutti composti dalla medesima mano, nello stesso
tempo; manca il carattere del secolo, manca l'impronta di ogni
spiccata originalità poetica. Ciò significa che l’arte vi è assente?
No ; come ogni forma d’ arte primitiva, al pari della pittura e
dell’architettura sacra, anche la poesia dei cantari è « imperso¬
nale » cioè fa scomparire i tratti individuali dentro gli schemi
imposti dalla tradizione. Illusi da questa apparenza esteriore, i
critici di qualche decennio fa attribuivano in fascio tutti i can¬
tari ad Antonio Pucci.
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I CANTASI LEGGENDARI ITALIANI
23
Sono simili in tutti i cantari lo svolgimento dell’azione, lo scio¬
glimento del nodo dei fatti; simili i colpi di spada, gli amori,
le avventure. Ed è tale la parentela che lega insieme tutti i
cantari, che abbondano i versi comuni a parecchi di essi. Per
esempio il verso:
infìno a mezzogiorno ha cavalcato
appartiene al Gibello (I, XXVI, 2), e a Pulzella Gaia (LXII, 2).
Il verso:
E quando venne sé l’alba del giorno
è comune a tre cantari: la Regina (l'Oriente (III, XXXVI, t),
Bel Gherardino (I, X, 7) e Liombruno (I, XXVI, t). Il verso:
chi si vantava di bella mogliere
è tal quale in Liombruno (I, XLI, 1) e in Madonna Piena
(X, 1).
Questi tratti comuni del resto erano necessari per aiutare la
memoria durante il canto sulla panca.
IV.
Il " Fiore di leggende
I cantari avevano soggetti disparatissimi: erano religiosi, leg¬
gendari, cavallereschi, epici, novellistici. Il Cantare dei cantari
(1380-1420), che è come l’indice del repertorio dei cantastorie,
raccoglie nelle sue ottave tutta la leggenda del Medioevo. Stu¬
diando i cantari del popolo italiano, credo opportuno di inco¬
minciare col distinguerli e disciplinarli in alcune grandi classi:
1° i cantàri ciclici, cioè quelli che si riferiscono a per¬
sonaggi carolingi o a personaggi del ciclo d’Artù. Alcuni di
essi, sei in tutto, di schietta materia carolingia, furono recen-
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E. LEVI
temente raccolti in volume (1); la maggior parte è ancora di¬
spersa nei codici e attende un editore coscienzioso ;2);
2° i cantari di argomento classico: Orfeo, la «bellissima
storia di Perseo quando ammazzò Medusa », la « Historia di Gia¬
sone e Medea », la « liistoria di Piramo e Tisbe », la « Historia
e morte di Lucrezia romana », ecc. ;
f
3° i cantari di argomento religioso, come la « Historia di
Giuditta », la « Historia di Susanna », la « Historia del Santo
Volto », il cantare di madonna Elena imperadrice, la storia di
S. Giovanni Boccadoro, la « leggenda delli sette dormienti », la
« Storia della cintola della gloriosissima V. M. », la storia di
S. Martino, di S. Caterina, di S. Verdiana, « di quelli santi mo¬
naci che andarono al paradiso deliciarum », ecc. (3);
4° i cantari leggendari, quelli cioè che corrispondono ai
lais brettoni di Maria di Francia, ai racconti di fate, ai poe¬
metti e ai poemi di Chrétien de Troyes e ai romanzi d'avventura ;
insomma quelli che raccolgono la « leggenda minore » francese.
In un libro, nel Fiore di leggende (4), ho cercato di ricomporre
(1) G. Barisi, Cantari cavallereschi dei sec. XV e XVI ( Collez. di opere
inedite o rare, pubblicate dalla R. Commissione pe’ testi di lingua), Bo¬
logna, 1905.
(2) A quest’opera attende la sign.* Moreschi. Per ora ci si deve servire del
voi.: G. Malavasi, Im materia luetica del ciclo brettone in Italia, e inpar¬
ticolare la leggenda di Tristano e quella di Lancillotto, Bologna, 1903.
(3) Due cantari religiosi»composti nel 1449, intorno a S. Cristina e a S. Or¬
sola furono ed. da A. Cinquini, Leggende in rima di S. Cristina e S. Orsola,
in Classici e neolatini, IV, 1. Altri cantari sui santi Alessio, Barbara, Cate¬
rina mart., Caterina peccatrice, Giuliano, Lucia, pubblicò di recente R. Man¬
ganelli, Cantari narrativi religiosi del popolo italiano, nuovamente raccolti
e comparati, Roma, 1909, P. I.
(4) Scrittori d'Italia, 1914. Il primo volume, l’unico finora pubblicato,
comprende i 12 cantari, che sono appunto quelli dei quali discorro nei capi¬
toli V-XVI di questo libro. Il secondo voi. conterrà gli otto cantari della
Bella Camilla, Fiorio e Biancofiore, VApollonio, il Falso scudo. Il presente
saggio era destinato in origine a chiudere il primo volume del Fiore. — Di
Maria di Francia ho sott’occhio questa ediz.: Die Lais der Marie dk France,
herausg. von Karl Warnoke *, Halle, 1900. Per rendere più accessibile al
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
25
le sparse fronde di quell’albero secolare e prodigioso. Durante
quei lavori, per dare una linea architettonica al volume ebbi
davanti agli occhi costantemente la visione del libro di Maria
di Francia e cercai di raccostare la materia italiana a quella
dei lais. E infatti i tre cantari del Bel Gherardino, della Pul¬
zella gaia e di Liombruno corrispondono al lai di Lanval ,
Gibello al lai di Fratine, ecc. Le leggende antiche, che hanno
tanta grazia di candida ingenuità nel verso cadenzato e melan¬
conico di Maria, si improntano, in questi rudi cantari destinati
alla plebe, di una robustezza più acre e virile, ricevono il sug¬
gello del carattere scettico e insofferente del nostro popolo, che
forse tra un’ottava e l’altra meditava il tumulto dei Ciompi. Le
leggende medievali perdono il loro vago profumo di sogno e di
mistero (t) ed hanno qui linee nette, colori accesi e violenti,
perchè l’occhio del popolo italiano, inondato di luce e di sole,
rifugge dalle nebbie e dalle incertezze e dovunque, anche nel
romanzo, vuol vedere chiaro, preciso e definito. Siamo al tra¬
monto della leggenda (2).
pubblico italiano il testo, non sempre facile, dei lais ne ho compiuto una ver¬
sione in prosa, che vedrà tra breve la luce in un volume della collezione :
Scrittori stranieri (Bari, Laterza). Nella scelta, nell’ordinamento e nell’in¬
terpretazione della materia dei volumi del Fiore di leggende tengo presente
quell’aureo libro, cosi caro a Gaston Paris, che è lo Spielmannsbuch di Wil¬
helm Hertz. Mi servo della 4* ediz., Stuttgart, 1912.
(1) Si noti che i lais di Maria di Francia, quasi fossero composti con spi¬
rito non latino, sebbene fosse romanza la loro parola, non ebbero nell’Europa
meridionale quella straordinaria fortuna che li salutò invece nell’Europa ger¬
manizzata. Risale alla prima metà del Duecento la versione nordica, gli Stren-
gleikar, eseguita per ordine di Re Haakon [1217-1263]; risalgono al Trecento
e al Quattrocento le versioni inglesi dei lais di Lanval e di Fraisne.
(2) L’attraente studio della sorte che ebbero tra noi le leggende medievali,
delicate e sottili come trine, potrebbe dar luogo a notevoli indagini e ad im¬
portanti discussioni. Mi basti per ora ricordare la bella conferenza di A. Grap,
Il tramonto delle leggende nel voi. La vita italiana nel Trecento 7 , Milano,
1912, pp. 293-321.
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E. LETI
V.
Il bel Gherardino.
4
Il bellissimo cantare del Bel Gherardino si legge in due ma¬
noscritti toscani del Trecento (1) e in uno di questi reca in
fronte la data: « al nome diddio amejn], adi 15 di marso 1392 ».
Ma questa data deve essere errata, perchè il manoscritto sembra
più antico di qualche decennio e contiene in principio degli atti
giudiziari del podestà di Dicomano dell’ anno 1342 e alla fine
dei ricordi famigliari dell'anno 1372. La postilla scritta in fronte
al Bel Gherardino è della stessa mano che vergò quei ricordi
e la nota che vi si connette: « al nome di Dio adi XXVI d’aprile
1372 », sicché è ragionevole il sospetto che anche la trascrizione
del cantare sia avvenuta proprio in quella primavera del 1372
e che in quella postilla debba leggersi « adi 15 di marzo 1372 »
in luogo di « 1392 ».
L’editore del Gherardino , lo Zambrini (2), suppone che il
(1) A: cod. Magliai). Vili. 1272, c. 32 6, «e qui finisce questo legiere
« d’Apolonio. Regraziato sia Idio ella sua madre vergine Maria. Amen.
* Questo cantare d’Apolonio è finito allo vostro onore e 1 secondo è al co-
< minciante dello Gherardino, e questo libro è di Davantino di Giovanni ».
E nella c. 33 a: < al nome d’iddio, ame[nj; adì 15 di marzo 1392 ». Il can¬
tare finisce a c. 37: « Amen, amen, amen; finito è il chantare del bel G. ».
— B : cod. II. IV. 163 della B. N. di Firenze, c. 94. Il testo rimane interrotto
all’ott. I. 28.
(2) F. Zambkim , Cantare del Bel Gherardino, novella cavalleresca in
ottava rima del sec. XIV non mai fin qui stampata, Bologna, 1867. Intorno
a questa sciagurata ediz. si cfr. G. Piccini, Lettera a F. Zambrini, nel gior¬
nale Ixt gioventù, rivista nazionale italiana di scienze, lettere, arti, Firenze,
1867, N. S., voi. IV, p. 321. Al Piccini rispose, difendendosi, F. Zambkim, Sul
Bel Gherardino, ttovella cavalleresca del sec. XIV, ecc. nel medesimo vo¬
lume della Gioventù, p. 431 e segg.; replicò il Piccini additando una serie
di « scerpelloni » del cantare. Frutto di questa polemica è la seconda ediz.
del Bel Gherardino, nel 1871 (falsa data: 1867) nella Scelta di curiosità
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
27
cantare sia assai antico e sia stato composto « almeno verso
« il 1335 o in quel torno, cioè a dire innanzi che il Boccaccio
« componesse la sua Teseide ; per ver dire mostrasi in questo
« nostro cantare che la stanza non fosse ridotta alla sua per-
« fezione, come ritraesi dalle ottave 1, 11, 12, 14, che, senza
« interruzione di senso e di costrutto, sono di sei endecasillabi
« runa ». Il ragionamento è assurdo; quelle ottave non sono
imperfette per l’infanzia della poesia, ma semplicemente perchè
il codice è lacunoso. L’altro manoscritto, che sinora era sfuggito
alle ricerche dei critici, colma tutte quelle lacune e ridà « per¬
fezione » alle ottave.
Un dato cronologico ben più saldo e robusto ci viene dal Cor-
baccio boccaccesco, nel quale il poeta discorrendo dei pettego¬
lezzi della sua malvagia vedova, esce a dire:
E già assai volte, millantandosi, ha detto che, se un uomo stata fosse,
l’arebbe dato il cuore d’avanzar di fortezza non che Marco Bello, ma il Bel
Gherardino, che combattè con l’orsa.
Queste parole, che evidentemente alludono alle ott. 15-17 del
primo cantare del Gherardino, furono scritte tra il dicembre
del 1354 e il febbraio del 1355 (1), ed attestano con sicurezza
che già verso la metà del secolo i personaggi e gli avvenimenti
del poema erano largamente conosciuti dal pubblico.
Chi è l’autore del Gherardino ? Naturalmente i critici del
vecchio stampo, che tutta la roba senza padrone assegnavano in
fascio al Pucci, son concordi nel riconoscere anche nelle ottave
del poemetto il « legname » del banditore fiorentino. Vediamo.
Nel poema soltanto due volte il cantastorie interrompe il rac-
letterarie inedite o rare, disp. LXXIX. Intorno a quel pasticcio bibliografico
cfr. G. B. Passano, I novell. ital. in verso, Bologna, 1868, p. 154; F. Zam-
brini, Le opei-e volg. a stampa dei secoli XIII e XIV*, Bologna, 1884,
col. 212. Lo Zambrini non conobbe altro che il cod. A.
(1) Cfr. H. Hauvkttk, Una confessione del Boccaccio: il Corbaccio, tradu¬
zione di G. Gigli, Firenze, 1905, p. 19.
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B. LITI
conto delle gesta di Gherardino per parlarci, sia pure di sfuggita,
di sè stesso : all'inizio del primo e all'inizio del secondo cantare.
[I. 2] Con ciò sia cosa che questo cantare
sia dei primi ch'io mai mettessi in rima,
però vo’ far perfetto incominciare
e ritornare al buon detto di prima,
siech’a costor, che mi stanno a ascoltare,
piaccia e diletti dal piede alla cima.
[II. 2] Signori e buona gente, voi sapete
che in prima è l’uom discepol che maestro
e le virtù, ch’agli nomini vedete,
procedon dal Signor, Padre cilestro.
Però, s'io fallo, non mi riprendete,
che di tal arte non son ben maestro...
Dunque il poeta era alle sue prime armi e domandava ap¬
punto per questo l’indulgenza degli ascoltatori. Del Pucci noi
abbiamo sirventesi del 1333 « per il diluvio che fu a Firenze »
e abbattè la statua di Marte al Ponte vecchio, del 1335 «per
ricordo delle belle donne eh’erano in Firenze», del 1337 per
l’acquisto di Padova. Se l’autore del Gherardino fosse real¬
mente il Pucci, poiché quei versi sono dei primi che il poeta
« mai mettesse in rima », bisognerebbe collocarne la composi¬
zione intorno al 1330. Che si possa risalire a tempi cosi remoti
lo creda chi vuole, non io; tanto più che la citazione del Cor-
baccio pare riferirsi a un’opera recente, intorno alla quale fosse
ancor desta la curiosità dei fiorentini, e non a un lontano can¬
tare, di cui già fosse ormai illanguidito il ricordo.
Sebbene l’autore si dichiari da sè stesso « non ben maestro »
nell’arte di poetare, il Bel Gherardino è una delle opere più
fresche ed affascinanti del Trecento. Il racconto corre rapido e
serrato, senza perdersi nelle solite lungaggini della poesia po¬
polaresca ; ed è, nella sua densità, vivo e drammatico. Appunto
perchè diffidava delle sue forze poetiche, il cantastorie si è tenuto
cosi stretto alla sua fonte, che rispetto ad essa le ottave del can-
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
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tare sembrano come un guanto ben calzante, entro il quale pre¬
mano le forme di una bella mano, delineandosi con meravigliosa
evidenza. Alla sua fonte, che era certo un libro e non una tra¬
dizione orale (« come legger soglio », cant. I, ott. 3), l’autore ac¬
cenna più d’una volta:
[I. 12] e un grande orso (ciò dicon le carte)
assalì Marco Bel subitamente.
[11.24] E, s’egli è vero quel che il cantar mostra,
più e più volte d’amor feciono giostra.
Ma sono citazioni cosi vaghe, che non si può trarne dedu¬
zione alcuna.
La trama del racconto è questa.
Bel Gherardino, figlio di messer Leone di Roma, è cosi libe¬
rale che in poco tempo dà fondo all’eredità paterna; e allora,
insieme con uno scudiero, Marco Bello, pensa « di andare alla
ventura ». Giunti presso un castello, devono combattere con un
orso e con un serpe; e Gherardino li uccide. Entrano nel ca¬
stello e lo trovano deserto (1-20). Dopo cena, a Gherardino ap¬
pare la Fata Bianca; e subito il cavaliere e la fanciulla si in¬
namorano (20-34). Ma Gherardino è afflitto dalla nostalgia e vuol
ritornare a Roma. La Fata gli regala un guanto incantato, per
mezzo del quale egli potrà ottenere ogni cosa che desideri, e
raccomandandogli di serbare il segreto del loro amore, lo ac¬
commiata. Figuriamoci la meraviglia dei romani di fronte al¬
l’infinito splendore della corte di Gherardino! (35-41). Gherar¬
dino non risponde alle indiscrete domande intorno all’ origine
delle sue ricchezze; ma non sa opporre un rifiuto alla madre
e le rivela il nome e l’amore della Fata Bianca (42-44). Subito
ricchezze ed armi scompaiono per incanto. Marco e Gherardino
si rimettono in via e cadono in un fiume, dal quale sono tratti
da una fanciulla. Gherardino si rituffa nell’acqua por lavarsi e
scompare. Marco e la fanciulla, che si sono innamorati l’un del¬
l’altro, non si dànno altro pensiero di lui (cant. II, 5-15). Ghe-
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E. LEVI
rardino capita ad Alessandria ed è fatto prigioniero ; la sultana
si innamora di lui. 11 Sultano annuncia che è bandito un torneo,
nel quale il vincitore otterrà la mano d’una gran signora e vuol
partire (II, 16-25). Quella signora è la Fata Bianca che, rite¬
nendo morto Gherardino, desidera di rimaritarsi. Gherardino
chiede commiato e va a partecipare al torneo, dove atterra tutti
i cavalieri, uccide il Sultano e riconquista la sposa (25-43). La
Sultana si consola della perdita di Gherardino, ottenendo in
cambio un altro donzello « di gran legnaggio ».
Il motivo fondamentale del poemetto, l'amore di Gherardino
per la Fata Bianca, la perdita di essa per l'indebita rivelazione
del segreto e la riconquista attraverso mille avventure, è co¬
mune ad altri cantàri italiani, quelli di Pulzella Gaia e di
Liombruno, ed ebbe nel Medio evo (nei sec. XII e XIII) la sua
più perfetta espressione poetica nei lais di Lanval di Maria di
Francia, e di Graelent (1) e nella meravigliosa saga di Parthe-
nopeus de fìlois. Come Gherardino, anche Lanval è un cavaliere
altrettanto liberale quanto povero; dolente del suo triste destino,
egli un giorno esce dalla città e giunge sulle rive d’un ruscello
dove trova due damigelle, le quali lo invitano a presentarsi alla
loro signora. Lanval le segue e arriva al padiglione, sotto il quale
(1) Die Lais der Marie de France, herausgegeben von K. Warnckf. *, Halle,
1900, p. 86 e segg. [n. V]. — Intorno a Lanval, cfr. Li lais de Lanval, Altfr.
Gedicht der Marie de France, nebst Th. Chestre's Launfal, neu herausge-
geben von L. Erli.no, Kempten, 1883; A. Kolls, Zur Lanvalsage, eine Quel-
lenuntersuchung, Berlin, 1886; W. H. Schofield, The Lag» of Graelent and
Lanral and thè story of Wayland, in Publicatiom of thè Modera Lan-
guaye Association of America, 1900, XV, 121-180. — Il lai di Graelent è
citato anche da Goffredo di Strasburgo nel Tristano ; Tristano canta un lai
von der vii etolzen friundin
Qrdlnndrs dee schoenen ...
in britùniecher t dee.
Esso è edito dal Baruazan, Fahliaux et contee des poètes frangois des XI,
XII, XIII, XIV et XV* siècles, nouvelle ódit. par Méo.n, Paris, Warée,
1808, voi. IV, p. 57.
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
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giace una fata meravigliosa. La fanciulla si innamora del cava¬
liere, ma, prima di concedersi, lo avvede che il suo amore ha
una condizione, alla quale non si può venir meno: il segreto.
147 A tuz joura m’&vriPz perdile,
se ceste anioars esteit sede.
Ma appena ritornato alla corte, Lanval si lascia sfuggire il se¬
greto. La regina s’era innamorata di lui; nel respingerne le im¬
pudiche profferte, egli le dice che ha donna della quale la più
meschina servente vale meglio di lei. La regina accusa al re
Artù l’imprudente cavaliere ed egli viene condannato a morte,
se entro un termine stabilito non riveli il nome della sua inna-
morata e non la presenti alla corte. L’ultimo giorno, mentre
Lanval tra il compianto di tutti si accinge a morire, a un
tratto appaiono nella città due damigelle meravigliose; la corte
crede che una di esse sia l’amica di Lanval, ma egli scrolla il
capo. Esse non sono che due serventi della Fata. Ed ecco ap¬
pare una terza fanciulla su un palafreno bianco. Lanval non
può frenare la sua commozione; ella è la sua innamorata.
Ella si fa largo e davanti a re Artù proclama: «Arturo, ascol¬
tami! Io ho amato un tuo vassallo. Eccolo. Egli è Lanval!»,
e balza in sella. Lanval l’attende al varco su una pietra che è
sulla soglia del palazzo e quando ella passa al galoppo, le si
lancia sull’arcione e l’abbraccia. Stretti in un abbraccio, sul me¬
desimo cavallo, la fata e il cavaliere galoppano via; e nessuno
li vide più.
L’argomento del lai di Oraeleni presenta qualche variante;
l'amore della regina e la vendetta di lei, che sono alla fine
in Lanval , sono collocati in Graelent al principio. Il cava¬
liere, sbandito dalla corte, va a vivere nei campi e nei boschi ;
dopo molte altre avventure, inseguendo una biscia, un giorno
arriva a un ruscello nel quale si bagnano tre fate. Due fuggono ;
la terza rimane. Graelent, che è prode e leale, non la tocca, ed
ella si innamora di lui. Vivono insieme un anno, amandosi di
perfetto amore ; poi il cavaliere ritorna alla corte. Quivi, durante
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K. LIVI
le feste di Pentecoste, il re, avvinazzato, fa porre la regina nuda
su un palco, perchè tutti possano ammirarne le bellezze. Solo
Graelent non partecipa al comune entusiasmo; e la regina, of¬
fesa dalla sua indifferenza, gliene domanda ragione. Il cavaliere
commette l’imprudenza di rivelare eli’ egli ha un’ innamorata
assai più bella; subito egli viene condannato a morte se egli
non riveli chi ella sia. Le scene che seguono, sono pur sempre
quello di Lanval ; ma qui la fata se ne fugge da sola e Graelent
la insegue fino a un ruscello. Ella si getta nell'acqua e Graelent,
per raggiungerla, nell’impeto e nella foga di quei momenti su¬
premi, sta per annegare. Ella lo salva, ma il cavaliere, dispe¬
rato per il suo errore, si getta di nuovo nell’ acqua. Allora le
duo damigelle intercedono grazia per lui e la Fata, rappacifi¬
cata, lo conduce nel suo regno. Nessuno più vide Graelent; il
cavallo di lui galoppa lungo le rive del ruscello, nitrendo di¬
speratamente quasi per richiamare il suo signore (1). Nel lai
di Graelent abbiamo un particolare analogo al cantare di Ghe-
rardino : la scena del fiume. Ma nella leggenda italiana il nesso
dei fatti è cosi strano ed illogico, che si deve ammettere che
la fonte del poemetto dovesse essere assai torbida e remota dal
lai primitivo; non si sa perchè Gherardino cada nel fiume la
prima volta (II, 5) e la seconda volta egli si rituffi nelle onde,
non già per la disperazione del rimorso (come nel lai), ma
semplicemente per un incredibile bisogno di lavarsi dopo il
primo tuffo!
Per moltissimi tratti si accosta al cantare italiano il bel¬
lissimo poemetto Pavthenopeus de Blois (2), che è un rima-
(1) Questi due lai» sono a fondamento delle leggende di B. Gherardino,
Pulzella gaia e di Liombruno. Sulle relazioni di questi tre cantari coi due
lai8 cfr. R. Kohlkr, nella pref. ai Lais, ed. Warncke, p. cxv.
(2) Parthenopeus de Blois, ed. Crapelet, Paris, 1834 ; cfr. Leorakd d’Acssv,
Fabliaux et contes du XII• et du XIII• siècle, traduits ou extraits d’après
divers mss. du teinps, voi. IV, p. 203 e sgg. ; J. B. B. de Roquefort, Notice
d’un ms. de la Bibliothèque imperiale coté n. 1239, in Notices et extraits
des mss. de la Bibliothèque Imperiale, voi. IX (A. 1813), pp. 3-84.
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI SS
neggiaraento, compiuto con molta arte, del vecchio motivo dei
due lais. Al pari di Lanval, Parthenopeus inseguendo un cinghiale
si perde in una foresta e poi giunge sulle rive del mare, dove
trova ancorato un vascello abbandonato. Appena egli è salito a
bordo, la nave parte e approda presso un castello. La descri¬
zione del castello fatato è nel Parthenopeus identica di quella
del Bel Gher ordino (I, 19-23): le mense sono imbandite, ma
deserte, deserta è la stanza dove arde un gran fuoco nel camino.
Come per incantamento le vivande sono recate e tolte ; a un
piatto ne segue un altro senza che mai si vegga chi li arrechi
e li sostituisca. Finito il pranzo, Parthenopeus si alza e due fiac¬
cole, proprio come nel B. Gher., gli si pongono ai lati e lo ac-
0
compagnano nella stanza da letto. Appena egli ò coricato, una
persona si spoglia e gli si colloca al fianco: è una dama, la quale
subito rimprovera Parthenopeus per il suo ardimento. Dalla pa¬
rola il cavaliere indovina che ella deve essere bella e con umiltà
le chiede scusa e le racconta Y avventura. La sconosciuta, an¬
cora irritata, lo minaccia di morte; e Parthenopeus, timido e
desolato, non sa trattenere il pianto. Quel pianto commuovo
la damigella e la induce al perdono; dopo pochi istanti ogni re¬
sistenza è vinta e i due giovani sono l’uno tra le braccia del¬
l’altro: flors i dona et flors i prist. La bella sconosciuta è
Mèli or, che con arti magiche ha attirato al suo castello Parthe¬
nopeus, del quale s’era innamorata. Ma egli non può sposarla
che tra due anni, quando sarà cavaliere, e perciò egli deve te¬
nersi celato quanto può e serbare gelosamente il segreto. Al
pari di Gherardino, Parthenopeus passa le giornate cavalcando
e cacciando; ma dopo un anno egli chiede congedo per ritor¬
nare in Francia e si imbarca. Giunge a Blois e vi ha moltis¬
sime avventure, che non trovano riscontro nel cantare e perciò
ometto (1). A Blois Parthenopeus si accompagna con un valletto.
(1) Il re di Francia era in guerra con Somegour di Danimarca; P. aiuta
il suo re con 5000 cavalieri e libera dall’assedio Pontoise. Si decide di ri¬
mettere le sorti della guerra a un duello tra Sornegour e P.; ma i soldati
Giornali ttorico — Suppl. n* la. 3
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K. LIVI
Guglielmotti), poi battezzato Aricele /, il quale ha nel poema fran¬
cese la parte che sostiene nel cantare italiano lo scudiero « Marco
Bello ». Ancelet e Parthenopeus vanno a vivere nel bosco e
abbandonano i cavalli; Urraque, sorella di Mélior, che naviga
presso la riva, ode il nitrito delle povere bestie, che lamentano
i padroni perduti, si inette alla ricerca degli infelici e trova
Parthenopeus ridotto allo stato selvaggio. Intanto Mélior, invi¬
tata dalla corte a scegliersi un marito, bandisce un torneo; ella
sposerà il vincitore. UiTaque dà a Parthenopeus armi e cavalli
perchè vi accorra e vinca i numerosi concorrenti, tra i quali è
il Sultano di Persia, precisamente come nel Bel Gherardino.
Ma il mattino del torneo, Parthenopeus, impaziente, fugge dal¬
l’isola di Urraque su una scialuppa e viene sbattuto dal vento
nell’isola di Tenedon. La castellana si innamora di lui e non lo
libera che quando egli le assicura che farà il possibile di ucci¬
derle il marito durante il torneo (= B. Gfier., c. II, ott. 28-29).
Sconosciuto a tutti, Parthenopeus entra in lizza e vince tutti
i cavalieri, poi si ritira senza alzare la visiera; i medesimi
prodigi egli rinnova il secondo e il terzo giorno, sempre più
misterioso e sconosciuto. Alla line del torneo per mantenere la
di 8. irrompono a tradimento nell’adone e fanno prigioniero P., poi lo resti¬
tuiscono. A Blois P. è oppresso da grave dolore, pensando a Mélior, che è
così lontana (questo episodio è evidentemente un rifacimento del lai di Elitioc
di Maria di Francia). La madre sua decide di dargli in moglie la figlia del
re e gli mesce una bevanda che lo inebria; durante l’ebbrezza egli sposa la
fanciulla, ma appena la forza del beveraggio è sparita, subito P. ha orrore
del suo misfatto e fugge da Blois, si imbarca sul vascello incantato e ritorna
da Mélior. Dopo sei mesi, vinto dalla. nostalgia, P. ritorna in patria. La
madre e il vescovo gli dànno a intendere che Mélior, che egli non ha mai
visto di giorno, sia un’orribile strega e gli dànno una lampada perchè la possa
vedere durante uno dei convegni notturni. P., ritornato presso Mélior, reca
nel letto la lampada ed ammira tutta nuda la bellissima fanciulla. Ella si
desta e sviene; intanto spunta il giorno e dame e cavalieri, entrando nella
stanza dell’ imperatrice, vi scoprono l’infedele P. e vorrebbero ucciderlo, se
non lo difendesse la sorella di Mélior, l'rraques. Accompagnato da lei, fugge
sulla riva del mare, si imbarca e ritorna a Blois. Quivi si chiude nella sua
stanza, nè vuole più rivedere la madre, la famiglia, la corte.
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I CANTASI LEGGENDARI ITALIANI
85
parola data, ritorna a Tenedo, ma la castellana, commossa da
tanta lealtà, gli rende la parola e lo libera. Dopo un lungo di¬
battito, i giudici proclamano Parthenopeus vincitore e sposo
di Mélior.
Il cantare segue dunque nei suoi tratti essenziali il poema
francese, ma omette molte parti che sono caratteristiche e belle,
come la scena della lampada, la vita selvaggia del cavaliere dispe¬
rato, e aggiunge il duplice bagno del bel Gherardino desumendolo
dalla leggenda di Graelent. Probabilmente l’autore del cantare
non aveva sott’occhio l’intero poema di Parthenopeus, ma un
compendio in prosa o in verso, forse uno dei numerosissimi testi
franco-veneti, che sono andati perduti nel grande naufragio di
quella interessante letteratura. Si noti che il poema di Parthe-
nopeus fu uno dei più popolari e fortunati in tutta l’Europa ; se
ne hanno versioni in olandese (t), in islandese, in danese (2), in
medio-alto-tedesco, in inglese (3); ed è celebre il romanzo Parto-
nopier und Melinr di Corrado di Wurzburg (f 1287), anch’esso
(1) Partonopeus und Mélior, Altfr. Gedicht dee XIII. J&hrh. in inittel-
niederlitod. und mittelhochdeutschen Bruchstficken herausg. von H. F. Mass-
in&nn, Berlin, 1847; Anton Van Bekkim, De Nieddennederlandsche beicer-
king van den Parthonopeus-Roman eti bare verhoiuling tot het oudfransche
origineel, Groningen, 1897 ; cfr. la recensione di G. Paris nella Romania,
XXVI (1897), p. 575. Il Van Berkum conchiude che il romanzo appartiene
al primo quarto del sec. XIII. — Intorno alle varie propaggini germaniche
cfr. E. KOlbing, Ueber die verschiedenen Gestaltungen der Partonopeus-
Sage, in Germanische Studien, Supplement zur Germania hgg. von K. Bartsch,
II, p. 109; E. KOlbing, Zu Partonopeu* of Blois, in Englisclie Studien,
XIV, 435; E. KOlbing, Ueber die nordichen Gestaltungen der Partenopeus-
sage, Breslau, 1873.
/
(2) Cfr. A. Trampe-BOdtkek, Parténopéus de Blois, Elude comparative des
versions islandaise et danoise, Udgiret for Hans A. Benneches Fond, Chri-
stiania, 1904.
(3) A fragment of Partonope of Blois from a manuscript at Vale Boy al,
London, 1873; The Middle-English Version of « Partonope of Blois » ed.
from thè ms. by Adam Trampk-B&dtkbk, London, 1912 [Early English Text-
Society, Extra Series, n° 109], voi. I; F. Weinuakrtner, Die Mittelenglischen
Fassungen der Partonopeussage und ihr Verhiiltniss zu dem altfr. Origi¬
nale, Breslau, 1888 (Dissert.).
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36
1. LEVI
ispirato alla leggenda francese (1). Persino nella penisola iberica
la melanconica leggenda trovò ammiratori e rifacitori; ne ri¬
mangono una versione catalana ed una castigliana (2). Sarebbe
davvero desiderabile che qualche cultore della nostra letteratura
medievale compisse uno studio sulla fortuna deH atfascinante ro¬
manzo in Italia. Io ricordo d’aver avuto fra mano lungo tempo
un grazioso codicetto del Parthenopeus scritto nel sec. XIII da
mano italiana; quel codice apparteneva nel Trecento alla libreria
mantovana dei Gonzaga (3). La storia delle vicende e delle pro¬
paggini del Parthenopeus in Italia sarebbe un interessante ca¬
pitolo della storia delle leggende romanzesche nel medio evo
italiano.
VI.
Pulzella Gaia.
I due cantari della Pulzella Gaia sono stati scoperti dal Rajna
in un codice del Quattrocento, che apparteneva alla biblioteca
Saibante di Verona e poi passò in proprietà del marchese Gi¬
rolamo d’Adda di Milano (4). Nel codice il cantare è « vestito
»
(1) Konrad von WPrzburg, Partonopier and Meliur ligg. von Karl Bartseh,
Wien, 1871 ; cfr. H. Look, Per Partonopier Konrads von Wiirzburg und
der Partonopeus de Binisi, 1881 (Dissert.).
(2) Historia del esforgado eavallero Partinobles conde de Bles ; y despues
fue eraperador de Costantinopla, etc., traduc. de la lengua catal. en la nuestra
castellana, Barcellona, 1842 ; cfr. A. Trampe-BQdtker, Parténopeus in Cata-
lonia and Spai», in Modem languages Notes, voi. XXI (1906), pp. 234-5.
(3) È il cod. 7516 delle Nouv. Acq., fonds franyais, della Bibl. Nazion.
di Parigi. Cfr. V. De Bartholomakis, Liriche antiche dell'alta Italia. Roma,
1912, p. 3. È citato nell’inventario della Biblioteca dei Gonzaga del 1407.
n. 30; cfr. Romania, IX, 509.
(4) Cfr. P. Rajna, Storia di Stefano figliuolo di un imperatore di Roma
(Scelta di curiosità letterarie, disp. CLXXVI), Bologna 1880, p. vi ; P. Rajna,
Una versione in ottava rima del libro dei sette savi, nella Romania, VII,
23. La tavola del ms. (c. 176 a) reca: « suso questo libro he inquadernato
tre liberi », e i tre liberi sono: 1° Apollonio di Tiro (c. 1-48); 2° Il libro
dei sette savi (c. 50-174); 3° Ptdzella gaia (c. 177-196).
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I CANTASI LEGGENDARI ITALIANI
37
per metà alla veneta », in quel dialetto mal celato da numerose
forme latineggianti, che è comune a tante scritture settentrio¬
nali di quel tempo:
[I] Ora ine intendeti, bona zente, tati quanti
in chortexia et in bona ventura:
dire ve volio de li cbavalieri aranti,
ch’ai tempo antigo andava a la ventura.
Il Rajna dubita che questo gergo non sia originario, e lo sup¬
pone piuttosto un travestimento o una camuffatura dovuti al
copista veneto ; e perciò nella sua edizione ha ricondotto il poe¬
metto alla forma toscana, che egli crede primitiva (1):
[I] Intendete me ora tutti quanti
in cortesia ed in buona ventura:
dire vi vo’ de’ cavalieri erranti
ch’ai tempo antico andava all’avventura.
La questione è assai ardua, nè si può risolvere coi soli ele¬
menti che offre lo studio interno del testo. Certo il cantare è
assai più antico della trascrizione veneta che sola ci è rimasta,
perchè esso è citato in un’ opera della fine del secolo XIV, la
Sala di Malagigi, anzi anteriore al 1388, se essa è del Pucci,
come il Rajna crede:
21 .
Eravi Marta e Maria Maddalena,
la Pulzella Gaia col viso piacente,
appresso a lei la Reina d’Oriente (2).
Questa citazione della Sala di Malagigi , in cui la Pulzella
gaia è ricordata accanto ai quattro cantari pucciani della Re-
(1) P. Rajna, Pulzella gaia, cantare cavalleresco, per nozze Cassin-D’An¬
cona, Firenze, 1893.
(2) Il cantare della Sala di Malagigi fu pubbl. dal Rajna per nozze D’An-
cona-Nissim, Imola, 1871, dal cod. riccardiano 1091 (sec. XV). In questo ini.
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38
E. LEVI
ghia d’Oriente , può ritenersi un buon argomento in favore del¬
l’origine toscana del poemetto.
Il cantare della Pulzella Gaia si ricollega molto strettamente
con quello del Bel Ghei'ardino ; anche qui il nodo dell’azione
è nell’amore misterioso di una fata per un cavaliere e nel tra¬
mutarsi dell' amore in inditferenza per causa della rivelazione
del segreto. Ma i particolari del racconto sono differenti: il dono
della fata, che nel Oherardino è un guanto prodigioso, qui in¬
vece è un anello; la rivelazione dell’amore della fata, che nel
Oherardino avviene per le domande insistenti della madre del¬
l'eroe, qui avviene durante un «vanto» alla corte. Questi tratti
che sono caratteristici della leggenda più antica, il lai di Lanca/
di Maria di Francia (1), inducono a pensare che, almeno nella
prima parte, il cantare di Pulzella Gaia rispecchi una tradi¬
zione più pura o più limpida del cantare di Oherardino e più
direttamente deduca le sue acque dalla letteratura leggendaria
francese.
L’argomento del cantare si può scomporre facilmente in due
parti: 1° (ott. 1-51), 2° (ott. 52-99). Della prima è a fondamento
l'amore del cavaliere Galvano per una fata, Pulzella Gaia. Alla
corte di Artù Galvano e Trojano scommettono « chi addurrà più
bella cacciagione ». In un bosco, durante la caccia, Galvano trova
una serpe con la quale invano lotta per molte ore; alla fine la
e, per conseguenza, anche nell'edizione del Rajna, manca la citazione della
Pulzella gaia, e l’ott. XXI finisce cosi :
Maria, Marta v'era e Maddalena,
Catherina pulzella d'Oriente,
Fata Morgana dal viso piacente.
Ma questa lezione dev’essere guasta; la legittima è quella ch’io ho dato nel
testo con la scorta di un altro ms. della Sala di Malagigi, il ricc&rd. 2816,
c. 121 a. In questo cantare il mago Malagigi, per compiacere a Lucrezia,
figlia del re Baldacchino, raffigura sulle pareti d’una sala del suo castello le
immagini di personaggi celebri e di donne leggendarie. Fra le immagini è,
dunque, anche quella della « pulzella gaia col viso piacente ».
(1) K. Warnckk, Die Lai# der Marie de France *, p. 96 e segg.
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
39
serpe lo richiede del nome e poi si trasforma in una bellissima
fanciulla. Ella è una fata, figliuola della fata Morgana ; ed è in¬
namorata di Galvano. Ma il cavaliere non può restare con lei
perchè ha scommessa la vita nel suo vanto con Troiano. Prima
ch’egli parta, la fata gli dà un anello, per mezzo del quale egli
potrà soddisfare ogni suo desiderio, e gli raccomanda il segreto.
Galvano ritorna alla corte con mirabile cacciagione, ottenuta
per via dell’anello; ed è un uomo felice perchè ha fama, ric¬
chezze infinite e l’amore della soavissima Fata (1-28). Ma la re¬
gina si invaghisce di lui e, siccome egli non acconsente al suo
capriccio, lo obbliga a « vantare » nella corte plenaria « la gioia
più fina » ch’egli possegga. Lo sconsiderato Galvano si vanta di
possedere l’affetto di una fanciulla « che è il fiore d’ogni donna
bella »; e per dimostrare la verità del « vanto » si rivolge al¬
l’anello e chiede che la Pulzella Gaia si presenti alla Corte. Ma
ogni preghiera è vana, perchè, infranto il segreto, sparisce la
virtù dell’incantesimo (29-36).
Convinto di menzogna, Galvano è condannato a morte ; ma la
fata si muove a pietà di lui e accorre con uno stuolo di don-
zelle vestite di nero e di cavalieri, in atto di minaccia. Galvano
ottiene licenza di dare l’ultima prova di valore e di fedeltà al
suo re combattendo con gli assalitori sconosciuti. In questo mo¬
mento Pulzella Gaia si fa innanzi tra le sue schiere, si rivela
a Galvano e gli rivolge amari rimproveri per aver palesato il
segreto; e poi scompare (37-50).
Tutto questo racconto si svolge con grande fedeltà alla saga
Lanval-Graelent, ed ha dei tratti che appartengono al lai di
Graelent e dei tratti che sono invece del lai di Lanval. Il primo
particolare della Pulzella Gaia, la caccia di Galvano nel bosco
e l’inseguimento della biscia, che è estraneo al lai di Maria di
Francia, è uno degli episodi più caratteristici del lai anonimo
di Graelent (1). Fuggendo da un suo eremitaggio silvestre, un
(1) Il lui di Graelent si legge in due codd. della Biblioth. Nat. di Parigi,
frane. 1104, c. 72 b, e 2168, c. 65; fu edito dal Barbazan, Fabliau x et contea,
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B. LEVI
giorno il cavaliere Graelent insegue una cerva e giunge sulle
orme di essa a un ruscello, dove si bagna la fata benefica (t).
Al lai di Graelent riclùama anche l’altro episodio importan¬
tissimo di questo cantare: il vanto, che non trova riscontro nelle
altre simili elaborazioni leggendarie. Nel lai di Lancal la regina
olire il suo amore al cavaliere ed essendo respinta lo accusa
al marito. Nel lai di Graelent gli avvenimenti non hanno tanta
semplicità: durante le feste di Pentecoste il re, ubriaco, vanta
davanti ai suoi baroni avvinazzati le bellezze della regina e
perchè tutti possano vedere coi loro occhi fa porre la regina
nuda su un palco. Tutti riconoscono che le loro donne non reg¬
gono al paragone; solo l’incauto Graelent non partecipa al co¬
mune entusiasmo. Di qui lo sdegno della regina, l’invito a
« vantare » donna più bella, la colpevole rivelazione del nome e
dell’amore della fata del bosco. Da tutto ciò sembrerebbe esclusa
ogni relazione del cantare italiano col lai di Maria di Francia
e parrebbe d’altra parte evidente la sua dipendenza dal lai di
Graelent. Ma subito ci richiamano a Lanval il nome dell'eroe,
Galvano, che nel lai di Maria di Francia è l’inseparabile amico
di Lanval e il suo salvatore:
229 Ceo dist W a 1 w a i n s, li frans, li pruz
Ki tant se fìst amer a tuz,
e il luogo dell’azione, la corte di Artù :
5 A Kardoeil surjurnot li reis
A r t u r li pruz e li curteis...
IV, 57 e segg. e dal Koqueport, Poesie* de Marie de Frutice, Paris, 1832,
p. 486 [n. XIII] e da G. Gullbero, Detuc Lais du XII• siècle, Kalmar,
1876; un sunto ne diede [Legrand d’Acssy] , Fabliau# et conte* cit., voi. I,
pp. 120-132.
(1) Intorno a questo motivo leggendario cfr. K. Pschmadt, Die Suge voti
der verfolglen Hindc, ihre Heinuit, Wanderung utul Bedeutung iti der
Literatur des Mittelaliers, Greifswald, 1913.
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
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A la pentecuste en etite
i aveit li rei» sujurné.
Asez i duna riches duns.
E as cuntes e as baruns,
15 a cels de la Table rotìnde...
femmes e terrea departi...
Cosi comincia anche il cantare italiano:
Dire vi vo’ de’ cavalieri erranti
ch'ai tempo antico andava alFavventura.
In corte allo re Artù sedean davanti,
secondo come parla la scrittura...
Nello scioglimento dell’avventura il cantare non si attiene nè
al racconto di Lanval nè a quello di Qraelent. .
In Lanval, dopo che la regina ha accusato il cavaliere d’averle
recato onta colle sue villane vanterie, Lanval è condannato
a provare, pena la vita, la verità del suo amore misterioso.
Quando già l’ora suprema sta per scoccare appaiono le mera¬
vigliose fanciulle che formano la corte della fata ; e poi alla fine
la raggiante bellezza della fata si presenta davanti agli occhi
estasiati dei baroni di Artù. Ella s’avanza e, al cospetto del re
e della corte, arditamente proclama: « Arturo, ascoltami. Un tuo
vassallo ho amato. Eccolo; egli è Lanval!».
631 Artur — fet eie — entent a mei...
Jeo ai anit* un tuen v assai.
Veez le ci ! Ceo est Lanval.
E balza in groppa. Lanval, che s’era messo alla posta sopra
un « perrun do marbré bis » davanti alla soglia del castello,
quando la fata gli passa innanzi al galoppo, d’un balzo le si getta
sulla sella. Stretti l’uno all’altra su quella groppa, in un attimo
essi sono scomparsi. Nessuno udì più parlare di loro:
663 Nnls n’en oi puis plus parler,
ne jeo n’eu sai avant cunter.
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42
K. LIVI
Il lai di Graelent segue il racconto di Lanval fino alla ap¬
parizione e alla scomparsa della Fata; poi procede in maniera
assai diversa. Graelent balza in groppa a un destriero e insegue
la fata fuggitiva e raggiunge il ruscello dove egli l’aveva cono¬
sciuta per la prima volta. La fata si getta nell’acqua ; Graelent
la segue, si tuffa e sta per annegare quando la mano della fata
lo sorregge e lo salva. Disperato perchè la fanciulla gli nega il
perdono, Graelent si getta un'altra volta nell’ acqua e sta per
scomparire tra le onde; le damigelle della Fata implorano la
grazia per lui. La fata lo salva, lo ravvolge nel suo mantello e
lo conduce nel suo regno. I Brettoni credono che egli Aiva an¬
cora; il cavallo, inconsolabile per la scomparsa del padrone,
corre lungo le rive del fiume annitrendo disperatamente. Se¬
condo i critici più recenti lo scioglimento dell’avventura, qual’è
in Graelent, sarebbe più conforme alla saga brettone primitiva,
mentre nelle altre parti il lai anonimo potrebbe ritenersi un
rimaneggiamento della leggenda di Lanval. Lo scioglimento del¬
l'azione, qual'è nella versione italiana della leggenda differisce
sensibilmente da quello delle due versioni francesi. Quando
Galvano è condannato, la fata appare davanti alla città con uu
esercito di donzelle e di cavalieri; Galvano ottiene di combat¬
tere contro gli ignoti assalitori; tra essi riconosce ramante, ne
ascolta i rimproveri; e poi la perde di vista. Bisogna dunque
escludere ogni relazione diretta tra i due lais brettoni e il can¬
tare italiano. Il cantastorie o ha lavorato liberamente di fantasia
su gli incerti ricordi della lontana leggenda o. più probabil¬
mente, si è servito di un testo, in cui il motivo originario della
saga brettone era già profondamente modificato e corrotto.
La seconda parte del cantare (ott. 51-99) ci porta assai lontano
dalla leggenda dei lais brettoni. Scomparsa la Pulzella Gaia,
Galvano si mette alla ricerca di lei e giunge a un castello dove
abitano cento fanciulle che piangono la triste sorte della fata:
per essere stata amata e rivelata da Galvano, ella è stata con¬
dannata dalla madre, la fata Morgana, a perpetua prigionia. Gal¬
vano capita in un’altra rocca, dove una dama vuol farlo prigio-
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
43
niero; ma egli si difende cosi valorosamente che ella, non che
perdonargli, si innamora di lui. Ma Galvano non acconsente alle
nozze, se ella non gli rivela dove sia relegata la fata. E cosi
Galvano apprende dov’ è la sua donna : in fondo a una torre,
nella città di Pela Orso. Galvano tenta di penetrarvi travestito
da mercante; respinto dalle guardie, ricorre alla violenza, sot¬
tomette la città e pone assedio alla rocca (77-89). Pulzella Gaia
dal fondo della torre invia a Galvano una lettera consiglian¬
dogli un'astuzia per mezzo della quale penetrare nella torre ;
parta dalla città e ritorni dopo quindici giorni, vestito di rosso.
con cento cavalieri travestiti con abiti femminili di color verde.
Quelli sono i colori della Dama del lago, sorella della fata Mor¬
gana, sicché le guardie saranno tratte in inganno e apriranno
le porte. E cosi infatti avviene (89-99); Galvano libera la sua
innamorata e al posto suo, in fondo all'orrida torre, rinserra la
crudele Morgana.
Della complicata avventura, che forma la seconda parte del
cantare, si ha un’eco nella Tavola i'i tonda, dove Breus « sanza
pietà» rimprovera Tristano e ogni cavaliere innamorato (1):
Deh, per inala ventura, disse Breus, e come si può Tuonio fidare di voi,
che per più fiate avete tolta la reina Isotta allo re Marco? E Lancialotto,
fratello di codesto traditore, à fatto il somigliante allo re Artù; e anche non
è grande tempo che Cai vano tolse la Gaia Donzella alla Fata Mor¬
gana; e tutti andate per tal via, e non curate dell’altrui disonore, pure che
a compimento venga vostra volontà !
Nei cap. LXXX e LXXXI della Tavola un altro lungo e inte¬
ressante racconto (2) spiega e illumina assai bene le strane vi¬
ti) Cfr. la Tavola ritonda o l’istoria di Tristano, pubblicata per cura di
Fil. Luigi Polidori, Bologna, 1864 (Collez. di opere inedite o rare, ed. dalla
R. Commissione pe’ testi di lingua, voi. VITI), P. I, p. 487.
(2) Cfr. la Tavola ritonda, I, pp. 294-803. Lo stesso racconto dell’arrivo di
Tristano al castello della Fata Morgana e dell’uccisione di Huneson si ha
anche nei mss. francesi del romanzo in prosa di l'riston ; ma nella redaz. fran¬
cese non v’è traccia alcuna deU’avventura di messere Burletta nè degli amori
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44
I. LETI
eende riferite alla line del nostro cantare. Siamo nel castello
di Palami (poi diventato « Pelaorso » sulla bocca del cantastorie):
da ogni lato si innalzano mirabili muraglie di marmo e di co¬
rallo. Tristano vi capita, cavalcando attraverso una diserta
landa, e vi apprende che del luogo è signora la fata Morgana,
sorella della Pulcella del Lago nonché di re Artu. Al mattino
Tristano ha la ventura di ammirare da vicino anche la nostra
eroina:
... e vetro venire li una donzella, e portava in sua mano uno barino d'oro
e uno vasello ove aveva acqua rosata, e una benda di seta, e fe* lavare a
messer Tristano sue mani e suo visaggio. E a tanto, ecco lì venire una don¬
zella di dodici anni, tanto bella e tanto avvenente e tanto leggiadra quanto
la natura meglio sapesse formare; più bionda che fila d’oro, con due occhi
vari in testa, onesti, e il suo bello parlare si era dolce e soave e rado; e in
sua inano ella portava una coppa d’oro. E Tristano molto amorosamente ri¬
guardava quella bella donzella e fra sé stesso diceva ch’ella era molto bella
e avvenente. E la Fata Morgana — la quale sapeva molte cose ed era saggia
— accorgendosi dello mirare di Tristano, gli disse:
— Sire cavaliere, questa è mia figlia. E quanto a voi piacesse, certo io la
vi donerei a dama! —
Tristano prende commiato e tanto cavalca « che fue in cima
della montagna petrosa, di lungi dallo castello di Pellaus una
lega » ; qui affronta ed uccide un cavaliere sconosciuto che è
appunto « Onesun lo calvo », drudo della fata Morgana e padre
della povera Gaia Pulcella. Proseguendo nel suo cammino, Tri¬
stano incontra un altro cavaliere, che va alla ricerca di Lancillotto
per vendicare un affronto. Quel cavaliere é un innamorato della
Pulzella Gaia.
Venendo un giorno ch’io cavalcava — egli racconta — presso allo castello
di Pellaus (= Pela Orso) e mirando in uno giardino, vidivi l'amore mio...
della Pulzella Gaia. Cfr. E. Lòseth, Le rornati en jtrose de Tristan, Ut
roman de Palamede et la cotnpilation de Bueticien de Fitte, Paris, 1890 (Bi-
# _
bliothique de l'Ecole de» haute» elude», voi. LXXXII), p. 136 e seg.
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
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ciò è quella Gaia Pule e Ila... E allora io non fui tardo, ma tantosto presi
la donzella per lo braccio e pulsimela davanti a l’arcione e portaimelane via con
grande allegrezza. E vero si è che la donzella ancora non sentiva d’amore, e
continovo veniva piangendo. Essendo dilungato io dal castello Pellaus bene
da tre leghe, e trovando una bella fontana, io scavalcai la donzella e molto
la prendeva io a confortare e forte lavare suo visaggio e sue mani bellis¬
sime... E vedendola tanto bella e tanto leggiadra e lo suo bello viso adorno,
oominciàle a baciare quelle sue labbra sottili vermigli e a toccare suo bianco
petto colle piccioline mammelle; e appresso le mirava il corpo e le nobili
membra, morbide e gentili, sicch’io veggendola tanto leggiadra, non poteva
raffrenare mia volontade.
Ma sul più bollo accorro Lancillotto © rovescia sconciameute
l’ardito amatore giù per le terre; offeso da quel brutto tratto
il cavaliere della Gaia Pulzella dopo di allora non si dà pace
finché non abbia vinto e abbattuto Lancillotto o chiunque ne
prenda le difese e la parte. Per questa ragione quel buffo e
tristo cavaliere affronta Tristano, amico del suo persecutore; la
sorte gli è ancora una volta sfavorevole ed egli deve arren¬
dersi per vinto e partire per la Cornovaglia a costituirsi pri¬
gione nelle mani di Lancillotto. Melanconicamente prende il suo
cammino, ma giunto in cima a un grande ponte, si arresta:
... e Tristano lo guardava, credendo ched e’ fusse pentuto. E pensando
Burletta tanto duramente, sì che nel suo pensare si deliberòe che meglio gli
era dello morire subito che andare per venire alle mani del piii mortale ni¬
mico ch’egli avesse in questo mondo; e allora insuperbie nel suo cuore e sie
si dispera. E poi esce dello suo arcione dello auferrante, e gittòssi nello cor¬
rente fiume; e subitamente egli fue annegato.
L'infelice amante della Pulzella Gaia porta un nome che è
insieme comico e triste, quasi a simboleggiare l'intricato gro¬
viglio di comico e di tragico di che ò fatta la sua avventura e
la vita di tutti: egli si chiama messer Burletta della Diserta.
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46
E. LEVI
VII.
Li ombru no.
Il motivo iniziale della leggenda di Liombruno è identico a
quello dei cantari del Bel Oherardino e della Pulzella Oaia:
il fatto più cospicuo è anche qui l’amore segreto di un giovane
mortale per una fata immortale, la perdita della fata per l'in¬
cauta rivelazione del segreto e in fine la riconquista di essa
dopo mille svariate e prodigiose avventure.
Liombruuo, tiglio d’uu pescatore, è abbandonato in un’ isola
deserta in preda del diavolo. Ma un'aquila lo ghermisce, lo
porta cosi in alto che il calore della sfera del fuoco gli brucia
i capelli, e lo depone in un castello, dove subito ella si trasfi¬
gura e appare una bella fanciulla di dieci anni. Ella è madonna
Aquilina. Liombruno e Aquilina si amano e dopo qualche anno
si sposano. Ma in fondo al cuore di Liombruno vi è una spina
che punge : il desiderio della patria lontana. Anche il bel Ghe-
rardino, nelle stesse condizioni, è profondamente tormentato
dalla nostalgia e non ha pace sin che l’amica non gli dà il con¬
gedo. Da monna Aquilina Liombruno, al momento del commiato,
ottiene in dono, come Galvano da Pulzella Gaia, un anello pro¬
digioso, che corrisponde al guanto fatato della leggenda del Bel
Oherardino (i-23).
^ w è
Notiamo che quell'elemento sentimentale, la nostalgia del¬
l’eroe, non appare nelle versioni originarie francesi, ed è invece
costante nelle propaggini italiane. Non è Lanval che desidera
il ritorno; è la fata stessa che bruscamente lo licenzia (1):
159 Ainis — fet eie — levez sus!
Vus n"i po£z demurer plus.
Alez vus en; jeo remeindrai.
(1) Marie de Fka.nce, Imìs de Lanval, ed. K. Warncke cit., p. 92.
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I CANTASI LEGGENDARI ITALIANI
47
Invece Gherardino ha « bramosa doglia » della sua città lon¬
tana, e Lioinbruno, tra le carezze di Aquilina, rimane sempre
« neghittoso e corrucciato ». Questa melanconica velatura di no¬
stalgia nei canti del nostro popolo, di cui si son tante volte
descritti l’indifFerenza e lo scetticismo, merita alla fine di essere
posta in evidenza. Lioinbruno ritorna in patria con un ricco
corredo di vesti e di gioielli e con una valigia « fornita di fio¬
rini »; quand’è sul punto di ripartire, apprende che in Granata
vi è uno splendido torneo, in cui al vincitore è riserbata la
mano della principessa ereditaria. Lioinbruno accorre, abbatte
i cavalieri, è proclamato vincitore. Ma il re di Granata, prima
di concedere allo sconosciuto la mano della figlia, provoca un
vanto , durante il quale egli abbia occasione di rivelare un poco
la sua vita e il suo animo. A malincuore Liombruno accetta di
vantarsi e vanta — manco a dirlo — le bellezze di Aquilina.
Il re gli concede trenta giorni per provare la verità del vanto
(33-43). Invano Liombruno invoca dall’anello fatato l’arrivo di
Aquilina. Egli ha infranto il segreto e il potere magico del¬
l’anello è scomparso. Al trentunesimo giorno, quando Liombruno
deve essere condotto al supplizio, appare una fanciulla. — È
tua moglie ? chiede il sultano.
Ei rispondea: — No, dolce messere.
Arriva una seconda donzella, e il sultano rinnova la domanda ;
ma Liombruno risponde che l’una e l’altra fanciulla sono dami¬
gelle della sua principessa. E infine arriva Aquilina, così sfol¬
gorante di bellezza che il re, umiliato, chiede perdono a Liom¬
bruno (44-46). In questo tratto il Cantare di Liombruno
aderisce strettamente al lai di Lanval (v. 473 e sgg.). Lanval
sta per essere ucciso, alla presenza di tutta la corte di Artù,
quando (1):
... dona pnceles virent venir
sur dous
Is palefreiz amblanz.
(1) Marie de Frante, Luis, p. 105.
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48
E. LEVI
Mult par esteient aven&nz ;
de cendal parpre bunt vestues
tut senglement a lur oliare nuee.
He Artù domanda a Lanval se una delle due è la sua sposa ;
« il li a dit : — Ne sai ki sunt... ». Ed ecco appaiono altre due
meravigliose fanciulle su due mule spagnuole. Nuova domanda
del re e nuovo diniego di Lanval (514-536). La folla s’apre per
la terza volta e su un bianco palafreno s’avanza una donna
chiusa in un camice candido che fa meravigliosamente spiccare
la delicatezza delle carni e il fulgore dei biondi capelli. Nes¬
suno osa guardarla, cosi splende quella divina apparizione :
Lanval, tra i ceppi, piange e sospira; e quel sospiro è una con¬
fessione :
611 Li sans li est inuntez el vis;
de parler fu alkes hastis.
— Par fei — fet il — ceo est m’amie! —
Nel cantare Liornbruno l’ingenuo poeta non ha còlto la fi¬
nezza psicologica di quella situazione; invece la rimatrice del
secolo XII ha tratto dal motivo tradizionale l’impeto alato d’una
sublime poesia.
Ancbe lo scioglimento dell’azione ù nei cantari nostrani assai
meno poetico che nel lai brettone: non vi è piu l’ardita apo¬
strofe della Fata al re Artù, non più il balzo di Lanval sulla
groppa del cavallo che scalpita, non più la fuga del cavaliere e
della Fata strettamente abbracciati sullo stesso destriero, che
via galoppa e scompare. Madonna Aquilina toglie a Liornbruno
armi e cavallo e lo lascia solo in un bosco. Nel bosco tre bri¬
ganti stanno disputandosi la preda, un pugno di fiorini, un paio
d’usatti e un mantello. Invitato a sciogliere la contesa, lo scaltro
Liornbruno indossa il mantello, calza gli usatti, prende i fiorini
e scompare. Arriva a un’osteria e chiede invano notizia di ma¬
donna Aquilina. Gli viene indicato un eremo dove convengono
i venti, che tutto vedono; e ivi si reca. È ospitato dal romito
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URBANA-CHAMPAU3N -
I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
49
e assiste all’arrivo di Garbino, Greco, Tramontana, ecc. Ma nes¬
suno conosce Aquilina, tranne il saputo e linguacciuto Scirocco,
il quale invita Liombruno a seguirlo l'indomani. Per virtù del
mantello e dei miracolosi usatti, Liombruno è più veloce del
vento e lo precede sulla vetta d’una montagna, dalla quale si
scorge il castello di Aquilina. Non visto, Liombruno siede ac¬
canto ad Aquilina, le toglie dal tagliere il boccone, ma vi fa
su scivolare l’anello di sposo (cant. II, 38-42). A quella vista
Aquilina sviene ed è portata a letto. Ma lo scaltro Liombruno
le appare immediatamente anche qui e immediatamente scom¬
pare per virtù del mantello. Alla fine Aquilina riesce a gher¬
mirne un lembo prima che Liombruno se lo sia compiutamente
ravvolto d’intorno : ne seguono il riconoscimento degli sposi, gli
abbracci e la pace.
Il secondo cantare, che comprende questa prodigiosa ricon¬
quista di Aquilina, non ha riscontro nei lais brettoni nè, credo,
nella letteratura del medio evo, ma si svolge invece intorno a no¬
tissime leggende del folk-lore tradizionale. Il mantello che rende
invisibile, gli usatti che rendono più veloce del vento colui che
li calza, sono usciti evidentemente dallo stesso arsenale che ha
fornito al popolo Panello che fa starnutire, il fischio che fa bal¬
lare, la tovaglia che dà a mangiare, la borsa dalla quale esce
il denaro senza fine (i). Nè solo negli elementi, ma anche nella
composizione e nella struttura il cantare di Liombruno si avvi¬
cina a moltissime favole popolari. Nelle Kinder- und Hnusmàr-
chen dei fratelli Grimm si ha un racconto quasi identico (n. XCII).
Il figliuolo d’un pescatore abbandonato al diavolo e posto in una
barchetta approda a una spiaggia sconosciuta; ivi compie molte
prodezze, libera la figlia del re e la sposa. Ma poco dopo, vinto
dalla nostalgia, torna in patria col sussidio di un anello magico
fornitogli dalla sposa. Il padre rimane sorpreso del suo ritorno,
(1) Cfr. G. Pitrè, Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani, Palermo,
1875, voi. I, p. 238.
Giornale storico — Sappi. n“ !•. *
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K. LEVI
ma non vuol credere che egli sia il marito d’una principessa ;
l’incauto figliuolo, per convincerlo, chiede all'anello che la sua
sposa apparisca. Ella infatti accorre, ma subito scompare por¬
tando con sè il magico anello. Rimasto solo e abbandonato, il
figlio del pescatore si mette per via e trova tre fratelli che
stanno disputando intorno alla ripartizione della loro eredità,
un mantello, un paio di scarpe e una spada. Gol pretesto di scio¬
gliere la contesa egli s’impadronisce di quei tre oggetti fatati
e con essi riesce a riconquistare la sposa.
Reinhold Kòhler, per il quale gli scrigni della fantasia popo¬
lare non avevano segreti, ebbe ad accostare alla novella dei
Grimm molte altre versioni d’ogni parte d’Europa (i). In quelle
magiare e norvegesi la perdita dell’anello avviene in un modo
simile a quello narrato dal nostro Cantare, cioè per la rivela¬
zione dell’amore della sposa in un « vanto » compiuto alla corte
del re. Per il particolare dell’ incredulità e della curiosità pa¬
terna la favola tedesca dei fratelli Grimm si avvicina, più che
a Liombruno, al cantare del Bel Gherardino , in cui però la
curiosità è attribuita, più opportunamente, non al padre, ma
alla madre.
Nelle consimili novelle danesi, rumene e ungheresi il pesca¬
tore, in cambio del denaro, non promette al diavolo il figlio,
come nel cantare di Liombruno, ma tutto quello che ha in casa
o tutto quello che sua moglie tiene sotto la cintola, ben sapendo
che nè in casa nè indosso alla moglie v’era cosa alcuna. Questo
tratto d’arguzia, che evita l’inumanità di quella cessione del figlio
al diavolo, sembra al Kòhler originario, sicché la fiaba italiana, che
ne è mancante, dovrebbe giudicarsi più tarda e più torbida delle
altre versioni europee. Ma il ragionamento si potrebbe rove¬
sciare, pensando che la semplificazione sia opera di un tardo
(1) G. Widter, A. Wolf, K. KAhler, Volktnnàrchen atis Venedig, in Jahr-
buch fiir romantiche und engltiche Literatur, hgg. von L. Lemke, Leipzig,
1866, voi. Vn, p. 147.
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tìft&WHIHAMPAIGN
I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
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rimaneggiatore della leggenda, e non primitiva. Chi può arro¬
garsi il diritto di definire le leggi e le strade dello spirito
umano ?
Dal cantare di Liombt'uno derivano infinite leggende popolari
italiane, che il Kòhler enumera nell’introduzione ai Lais di
Maria di Francia editi da Carlo Warncke (1), e sono queste:
Toscana: V. Imbruni, La Novellato fiorentina , n. XXXI.
D. Comparetti, Novelline popolari italiane, n. XLI.
Tuscan Fairy Tales , London, s. a., n. X.
T. F. Crane, Italian Popular Tales, London, 1885,
p. 351.
Abruzzi: A. De Nino, Usi e costumi abruzzesi , voi. Ili (Fiabe),
Firenze, 1883, n. LX1X.
Sicilia: G. Pitrè, Fiabe, novelle e racconti popolari sici¬
liani, n. XXXI.
Veneto : G. Widter e A. Wolf, Volhsmàrchen aus Vettetien,
Leipzig, 1866, n. X [Der arme Fischerknabel.
G. Alton, Proverbi, tradizioni e aneddoti delle valli
ladine orientali, Innsbruck, 1881, p. 131.
Che tutte queste versioni popolari derivino dal nostro vecchio
cantare, lo prova l’alterazione del nome dei due eroi, Liombruno
e Aquilina. È evidente che il nome originario della fata è quello
del cantare ; esso è tratto dall’aspetto d’aquila che la fanciulla
assume al principio della favola. Nelle versioni toscane dell’Im-
briani e del Comparetti, il limpido e chiaro Aquilina del « can¬
tare » diventa Colina e Chitina, in quella abruzzese addirittura
Culina e Culinda, in quelle trentine Chelina. Nella fiaba sici¬
liana pubblicata dal Pitrè (La ’mperatrici Tresibonna) ma¬
donna Aquilina prende il titolo e il nome di imperatrice Tre-
bisonda e Liombruno, poveretto, semplicemente quello di Peppi
(« ca a lu picciriddu cci misiru [nome] Peppi »).
(1) Ed. cit., p. oxvi e segg.
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52
B. LEVI
Del resto la popolarità di Liombruno è attestata dal numero
delle stampe: quattro del sec. XV, sei del XVI, quattro del XVII,
una del XVIII, una dozzina del XIX. Nelle Facezie del biz¬
zarro cremonese Poncino della Torre (t) è ricordato un certo
Filippo Mastrucci che, datosi alla poesia, « cominciò a voltare
« quando Buovo d'Antona, quando dama Rovenga del Martello,
«quando Aiolfo di Barbiconi, quando la vita del francese Gar-
«guantuaso, e quando la frottola di Liombruno», e notte e
giorno stentava por ficcarsi in testa i versi di quelle gaglioffe
barzellette. Nel c. XVII di Bertoldo , Bertoldino e Cacasenno
compare un giovanotto :
istivalato e avvolto in mantel brano
che il copre e par gli metta al corso i vanni.
Dice Marcotte allor: — Questi è Liombruno
che fece col mantello vari inganni.
Anche Filippo Pananti nel Poeta di teatro (c. XXIV) ricorda
una volta il mantello di Liombruno :
mi turo, mi rannicchio, mi nascondo,
il mantello vorrei di Liombruno.
Nei nostri giorni gli usatti di Liombruno furono rievocati in
una delle sue più soavi poesie dal mago prodigioso della lette¬
ratura popolare, Sèverino Ferrari (2). Chi non ricorda l’accorata
Nostalgia (1888)?
Non so se i dolci amici di Spezia e di Livorno
di Modena e Bologna e Firenze e Milano
m'abbian cader lasciato giù via da l’aureo corno
de la memoria, come un fior vizzo di mano:
(1) Le piacevoli et ridicolose facetie di M. Poncino della Torre Cremo¬
nese di nuovo ristampate, ecc., Venezia. 1626, c. 67 b. La curiosa testimo¬
nianza fu rievocata dall’ Imbriani, Novellaia fiorentina *, p. 472.
(2) S. Ferrari, Versi, Modena, 1892, p. 78.
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
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io so che spesso a mensa & canto a lor m'assido,
trovan vuoto il bicchiere, ed io li guardo e rido (1).
m
Perch’io son Liombruno; e se donna Aquilina
rn’ha dato il caro amore e in esso mi consolo,
pur tengo il par d’usatti ; cammina che cammina,
arrivo insiem co’l vento (2); e in dosso ho il ferraiuolo
con che, non visto, o amici, a voi sono presente;
e fo come la spugna, che beve e non si sente.
Il cantare di Liombruno non si trova nei manoscritti, ma ci
fu tramandato da una numerosa serie di stampe popolari della
fine del Quattrocento (1485-1495), del Cinquecento (1550-1570),
del Seicento ed anche più recenti, fino ai nostri giorni. Le ver¬
sioni sono due, l’una più antica (sec. XV e XVI), che ha 97 ot¬
tave e l’inizio « Onnipotente Dio che nel ciel stai », l'altra mo¬
derna che comprende 91 ottave e incomincia : « Dammi aiuto,
chè puoi, musa divina ».
Rispetto alla versione antica, quella moderna edita dallTrn-
briani (3) ha molte e profonde varianti, non solo formali, ma
anche nell’argomento. Tutto quello che nel poemetto primitivo
era più ingenuamente fantasioso, fu messo da parte. Il diavolo
al quale il pescatore cede Liombruno è trasformato in un cor¬
saro turco :
1-4 « a un'isoletta del mare arrivò
ed ivi un gran corsaro ha ritrovato.
Pare che il senso del mirabile e dell’ infinito si sia assotti¬
gliato nel nostro popolo, attraverso i secoli. Quando Liombruno
si reca alla cella del romito e batte all’uscio, l’eremita, nella
(1) Liombruno, c. IT, ott. 38*39.
(2) Liombruno, c. II, ott. 34.
(3) La redazione moderna fu pubblicata da Vitt. Imbuì am. La novellata
fiorentina, fiabe e novelle stenografate in Firenze dal dettato popolare *,
Livorno, 1877, p. 454 e segg. ; la redaz. antica nel Fiore di leggende, III.
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B. LITI
sua solitudine, tutto timoroso, si rifiuta di aprire. Liombruno
allora invoca la Vergine; e la porta si apre (li, 22):
e quel romito forte si assicara
chiamar sentendo la Vergine pura.
Nella redazione moderna l’eremita apre la porta, non già per
pietà verso la Vergine, ma perchè Liombruno s’è tolto il man¬
tello od egli ha riconosciuto che il suo viso non è quello d’uno
scavezzacollo :
e quel romito forte si assicura
vedendo di persona la figura.
Nell’antica storia due volte interviene Iddio stesso per ispi¬
rare il romito (II, 25-28):
e quel romito, ch’è da Dio ispirato...
Ebbene : e l’una e l’altra volta nelle stampe moderne all’ispi¬
razione divina è sostituito l’invito di Liombruno :
e quel romito da lui invitato...
Poco dopo l'eremita offre da cena al suo ospite: due bocconi
semplicissimi, perchè egli trae il conforto della vita da ben altro
che dai piaceri della tavola, dalla sublime presenza di Dio e
degli Angoli :
11-32 E quel romito da cena gli dava
di quelle cose che per lui avia;
l’angiol del cielo si lo visitava.
Nelle stampe moderne anche l’intervento dell’angiolo del cielo
viene escluso ; invece dell’ispirazione ascetica abbiamo la più
positiva e prosaica preparazione della cena in cucina, tra ba¬
rattoli e casseruole :
e quel romito da cena gli dava
di quelle cose che per lui avea ;
e mentre che per ciò gli preparava...
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIAN
55
Nel cantare antico sono costantemente in scena il diavolo,
Iddio, la Vergine, un angelo ; in quello moderno il diavolo,
Iddio, la Vergine e l’angelo sono messi fieramente alla porta e
sostituiti con persone vere, di carne e d’ossa. La « degrada¬
zione » della leggenda è compiuta ; la fantasia si spegne e la
prosa della vita uccide la bella ingenuità primitiva, la credula
fede degli avi.
A quale tempo appartiene la storia di Liorabruno ? Le prime
stampe appartengono al decennio 1480-1490, ma io credo di
poter affermare con piena sicurezza che la composizione dei due
cantari risale almeno ad un secolo prima (1380).
Le usanze e i costumi descritti in questo poemetto sono ben
antichi, e non è possibile collocarli in pieno Rinascimento. Aqui¬
lina, quando Liombruno se ne innamora, ha dieci anni soltanto,
il che ricorda subito il lamento dantesco che per le ragazze
fiorentine « il tempo e la dota fuggien quinci e quindi la mi¬
sura » (Farad., XV, 105). Anche nel cantare di Gibello , che è del
Trecento, madonna Argogliosa, quando ospita per la prima volta
il suo sposo « era di nov’anni, molto bella ». Prima che Liom¬
bruno parta, Aquilina lo arma cavaliere ; gli cinge la spada
e gli dà gli speroni d’oro. Dopo questa cerimonia Liombruno
diventa messere (XXIV, 7-8) :
e fatto questo...
messere Liombruno era chiamato.
Tutto questo ci richiama a tempi assai antichi, nei quali la
cavalleria non era ancora rinvilita e negletta. Si aggiunga che
l’arte del cantastorie è in Liombruno assai primitiva ed in¬
genua. I versi si reggono molte volte solo per le licenze della
recitazione accompagnata dalla musica e fors’anclie dal tramestio
di un irrequieto uditorio (1); le ripetizioni sono frequentissime,
non già per la povertà d’ispirazione del poeta, ma per un espe-
(1) Spesso si ha la dialefe: XVI, 4; XXXIX, 1; XLVIII, 6; sec. cant.,
VII, 3, ecc.
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56
E. LEVI
diente di memoria del cantore, che in quei tratti simili trovava
un riposo e un richiamo a seguire. Molti versi sono ripetuti
due volte o anche tre nel corso delle non moltissime ottave dei
due cantari (i).
Chiunque abbia qualche pratica della letteratura delle origini
ed abbia un poco di gusto, subito scorgerà nel frasario e nel¬
l’atteggiamento del pensiero e della parola di questo testo, dei
caratteri non dubbi di antichità. Un fatto assai importante si è
che alcuni versi di Liombruno si ritrovano tali e quali uei
cantari del Pucci e nel Del Gherardino , che ò certo della prima
metà del Trecento. Il verso: « Di niuna parte lo potean vedere»
(cant. 11, ott. VII, v. 8) è press’a poco quello del Gherardino
(cant. I, ott. XX, v. 2) : « Che chi ’l facesse non potean ve¬
dere ». Il verso (I, XXVI, I):
G quando apparve l’alba dello giorno
si ritrova altre due volte nella poesia leggendaria del Trecento:
nella Regina d’Oi'iente (cant. Ili, ott. XXXVI, v. 1) e nel Ghe¬
rardino (cant. I, ott. X, v. 7). Dedurne che Liombruno sia
del Pucci, sarebbe audace; ma il dedurne che Liombruno appar¬
tenga ai tempi del Pucci non varca i limiti della più oculata
prudenza.
Del resto dell’antichità di Liombruno si ha una traccia bel¬
lissima proprio al principio del poemetto. Prima di entrare in
argomento, il canterino si diffonde in un lamento sulla povertà
e dice (ott. II, v. 1 e sgg.):
Signori, intendo che per povertade
molti nel mondo son mal arrivati,
hanno perduta la lor libertarie,
la povertà sì forte gli ha cacciati.
(1) Eccone l’elenco:
1° cant. I, ott. XXVI, v. 8 = XXXII, 5; 2° cant. I, ott. XXIV, 1 =
XXXV, 1 = XXXVHI, 5; 3» — I, XLVII, 8 = cant. II, II, v. 7; 4» — I,
XXX, 8 = cant. II, XIX, 8; 5° — II, XX, 1 = cant. II, XXIII, 1 ; 6« — II,
XXV, 1 = cant. II, XXVIII, 1; 7° — I, XVII, 7 = cant. II, XLI, 6.
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-- URBANA-CHAP4 PM GN-
I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
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Quell’ io intendo , che pare una zeppa insignificante, è invece
una onesta citazione : infatti i versi che poi seguono sono tratti
da uno dei capitoli alla Vergine di maestro Antonio da Ferrara:
... chi distrugge la sua facultade
per sua diffalta ognuno ’1 fogge e schiva.
35.
chè troppo dà ragion la povertade
all’uom di viver male e sì ’l fa servo
e venditor della sua libertade (1).
I capitoli dello sbrigliato canterino ferrarese furono composti
nel 1340-1357 (2); nè credo ammissibile che la citazione di essi
sia posteriore di molti anni alla data della loro composizione,
perchè ben presto essi dovettero cadere per sempre dalla me¬
moria degli uomini.
Vili.
Istoria di tre giovani disperati e di tre fate.
Come il cantare di LiomJbruno racconta i miracoli di un paio
di usatti e di un mantello, questa istoria s’aggira su quelli di
un corno prodigioso, di un tappeto e di una borsa. Tre giovani
« disperati » ottengono da tre belle fate il dono di quegli og¬
getti magici, che l’uno di essi, il più sciocco, si fa rubare da
una regina di cui si innamora. Ma dopo la perdita sciocca, suc¬
cede la scaltra riconquista; Biagio ritrova due piante di fichi,
delle quali la prima dà frutti che fanno crescere la coda e la
(1) Rime e prose del buon secolo della lingua tratte da manoscritti [da
Telespoko Bini], Lucca, 1852, p. 33.
(2) Cfir. E. Levi, Antonio e Niccolò da Ferrara poeti e uomini di corte
del Trecento, negli Atti e Memorie della Dep. Ferrarese di storia patria,
voi. XIX, Ferrara, 1909, p. 174-182.
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I. LETI
seconda frutti che la fanno scomparire. Con un paniere di quei
fichi Biagio va alla corte ; la regina e le damigelle, per via di
quei frutti, diventano caudate. Biagio si finge medico, guarisce
coi fichi della seconda pianta le damigelle, accorcia di due palmi
la coda della regina e prima di compiere interamente la cura
e la guarigione si fa mostrare il tesoro e riesce a riprendersi
la borsa, dalla quale escono quanti fiorini si vogliono, il corno
che a sonarlo fa comparire un esercito, e il tappeto che fa vo¬
lare per l’aria.
Questo cautare si riannoda ad infiniti racconti popolari ana¬
loghi, che hanno probabilmente la loro comune origine in alcune
leggende orientali. Ma fortunatamente in mezzo alla selva delle
tradizioni noi possiamo additare un riscontro medievale della
istoria italiana in un capitolo dei Gesta Romanot'um (CXX)
intitolato «I)e ainicitiae verae probatione » (1). Dario aveva
tre figli: al primogenito lasciò in eredità il regno, al secondo
le ricchezze acquistate durante la vita, al terzo « tria jocalia
« pretiosa scilicet anulum aureum, monile, et pannum pre-
« tiosum. Anulus illam virtutem baimit quod qui ipsum in di-
« gito gestabat, gratiam omnium habuit intantum quod quidquid
« ab eis peteret obtineret. Monile illam virtutem habuit quod
« qui eum in pectore portabat, quidquid cor suum desiderabat
« quod possibile esset, obtineret. Pannus illam virtutem habuit
« quod quicunque super eum sederet et intra se cogitaret ubi-
« cunque esse vellet, subito ibi esset ». Siccome il figlio, Gio-
nata, era ancora giovane ed inesperto, la madre, dei tre oggetti
non gli diede che l’anello, consigliandolo di guardarsi dalle donne.
Ma Gionata si innamorò d’una fanciulla e per lei chiese dal¬
l'anello infinite ricchezze. La donna si incuriosi di quella mira¬
colosa fonte di danaro, chiese delle spiegazioni e alla fine rubò
l'anello. Gionata andò dalla madre, la quale, dopo molti rim¬
proveri e nuovi ammonimenti, gli consegnò il monile. Ritornato
(1) Nel cod. più antico, quello di Innsbruck, è il cap. CXLVII.
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
59
dalla sua amante, poco dopo lo sciocco innamorato si fa togliere
da lei anche il monile. Nuovi rimproveri della madre e solenne
consegna dell’ultima parte dell’eredità, il mantello. Mentre Gio-
nata dorme tutto trionfante sul suo mantello, la sua amica tira
un lembo di questo, lo sottrae di sotto al dormiente, e scom¬
pare. Disperato, Gionata si pone in cammino, passa un fiume,
l’acqua del quale è così bollente che i piedi gli si bruciano. Il
giovane raccoglie un vaso di quell’acqua e prosegue il viaggio ;
arriva a un albero, ne spicca un frutto e lo mangia. Improv¬
visamente egli diventa lebbroso. Allora egli spicca un altro
frutto e lo mette da parte. Poco dopo trova un secondo fiume
che ridà le carni ai suoi piedi abbruciati dall'acqua ardente del¬
l’altro; di questa nuova acqua miracolosa attinge un vaso pieno.
Al di là del fiume s’innalza un altro albero « de cuius fructu
« cepit et comedit et sicut per primum fructum infectus erat,
« sic per secundum fructum a lepra est raedicatus. De ilio
« fructu etiam attulit et secum portavit ». Per via due vian¬
danti raccontano che il re è ammalato di lebbra ; subito Gio¬
nata dice loro : — Io sono medico ! E infatti si fa condurre alla
corte e guarisce il re. Intanto anche la sua innamorata si è
ammalata di lebbra e richiede l’aiuto di quel medico miracoloso.
Gionata accorre al suo letto, le fa confessare i peccati, si fa
indicare il nascondiglio dove sono celati i tre oggetti rubati e
poi, invece di darle dell’acqua del secondo fiume e dei frutti
del secondo albero, le dà acqua del fiume ardente e un frutto
dell’albero avvelenato e lascia la traditrice tra dolori atroci (t).
La leggenda si ritrova in alcune noveltine siciliane, che hanno
tutte questi dati fondamentali : un padre lascia in eredità ai suoi
tre figli tre oggetti prodigiosi (la verga, lu firriolu e lu cornu
’nfatatu) — uno dei figli si innamora della reginetta e si lascia
sottrarre da lei successivamente tutti i tre oggetti — disperato,
(1) Getta Rotti anoruin , herausgegeben »on Adalbert Keller, Stuttgart, 1*42,
p. 190 e segg. Su questa leggenda [Jonathas] cfr. I. A. Herbert, Cat. of Ro¬
mance8 in thè depart. of mss. in thè British Mufteum, III (1910), p. 207.
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K. LEVI
60
si mettt! in via e trova il fico, i cui frutti fanno nascere le corna,
e un altro fico, che (là frutti che le fanno scomparire. Forte di
questo segreto, vende dei fichi alla reginetta ed ella diventa
cornuta ; per toglierle le corna egli chiede ed ottiene la resti¬
tuzione della borsa, del corno e del ferraiuolo (i). Con pochis¬
sime varianti la storia dei tre giovani e delle tre fate si rac¬
conta ancora in Lorena (2) e in Germania (3). In Germania essa
era viva anche anticamente, poiché fu raccolta nel 1509 in un
libretto popolare intitolato Fortunatus , edito la prima volta
per cura di J. Heybler, ad Augsburg (4).
All’anno medesimo in cui fu ripubblicato, anche questa volta
ad Augusta, nel 1530, il libro di Fortunatus, pare si debba
i ■ ■ m ■ ■ •
(1) G. Pithè, Fiabe, novelle e racconti jtopolari siciliani, Palermo, 1875,
voi. I, p. 252 e segg. [n. XXVIII] ; Lacra Gokzekbach, Sicilianische Mar -
chen, ecc., Leipzig, 1870, nn. XXX e XXXI.
(2) E. CosquiN, Contee populaires lorrains, in Romania, V, 1876, p. 361,
n. XI, « La bouree, le sifflet et le chappeau ». Tre fratelli erano di guardia
in un bosco; l’uno era sergente, l’altro caporale, il terzo appuntato. Una
vecchia regala all'appuntato una borsa che non si vuota mai, al caporale un
fischietto, al sergente un cappello fatato. L’appuntato giuoca alle carte con
una principessa e perde un dopo l’altro i tre oggetti, allora la vecchia gli dà
delle frutta che fanno spuntare le corna e dell'acqua che le fa scomparire.
Egli va dalla principessa, ottiene la confessione delle truffe e la lascia con
un corno sulla fronte.
(3) Gkimm, III, 202. Si vedano i numerosi riscontri additati da R. Koehler
nelle note alle novelle XXX e XXXI della collezione Gonzenbach.
(4) Cfr. J. C. Brcnkt, Manuel du libraire s , TI, col. 1351; T. Graesse,
Trésor de livree rare», II, 619. Il Brunet e il Graesse citano anche una tra¬
duzione francese intitolata: Histoire comique ou tee aventures de Fortunatus,
Lione, 1615, ed una italiana ed. a Napoli, 1676. Ecco la trama del bizzarro
romanzo: Fortunatus lascia ai figli Ampedo e Andalosia una borea e un cap¬
pello fatati ; ma Andalosia se li lascia rubare da Agrippina, figlia del re d’Inghil¬
terra. Poi trova un albero i cui frutti fanno spuntare delle corna e un albero
con delle frutta che fanno scomparire le corna. Con un paniere delle due
specie di frutti, va a Londra, vende alla principessa le frutta che fanno cre¬
scere le coma, si propone di guarirla di quella malattia e cosi ne ottiene la
borsa e il cappello e poi la induce a ritirarsi in un convento. — Fortunatus
è già stato ravvicinato all’/sforwi dei tre giovani da T. Graesse, Trésor de
livree raree, III, 302. Intorno a questa leggenda, cfr. Béla Lazar, Ueber
das Fortunatus-Murchen, Leipzig, 1897.
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I CANTASI LEGGENDABI ITALIANI
61
pure ascrivere la prima edizione del VIstoria dei Ire giocani (1).
Ma probabilmente il cantare è più antico di qualche decennio,
perchè nella scorretta versificazione, nei lazzi e nelle fre¬
quenti buffonerie si rivela ispirato all’arte dozzinale dei can¬
tastorie del Trecento e del Quattrocento. E poi l’abito del me¬
dico, che Biagio prende a prestito prima di andare al capezzale
della principessa (cant. 2°, ott. XIX, 5; XXII, 2) è quello cosi
caratteristico dei « maestri » del medio evo, scarlatto coi lembi
orlati di vaio. Una descrizione press’ a poco uguale si ritrova
nella Regina d’Oriente, cant. I, ott. XXIII, vv. 7-8 e nelle no¬
velle del Sacchetti (2). In una lettera al Boccaccio ( Senili , V, 3)
il Petrarca impreca contro l’indegno sfoggio di vestimenta vistose,
che andavan facendo i medici del suo tempo: « la porpora scre¬
ziata a diversi colori, fulgori di anella, dorati sproni ». Nelle
pitture del Trecento e del Rinascimento il medico si riconosce
subito con grande facilità appunto per la « foggia » dell’abito e
per il lusso particolare delle stoffe e delle pelliccie.
L’antichità della storia dei Tre giovani è attestata inoltre
dal fatto che molti passi di essa presentano una gi*ande somi¬
glianza col cantare di Liombimno, del quale s’è determinata
con certezza la data (1380). Purtroppo sono ancora assai incerte
la provenienza e la data della raccolta dei Gesta Romanoi'um
e perciò non è possibile trarre da essa alcun aiuto nello studio
d éiV Istoria dei tre giovani. Il manoscritto più autico dei Gesta
(1) Ristorili di tre giovani disperati e di tre fate, s. n. t. n. a. (circa 1530);
cfr. Brcnet, Manuel, ITI, 221 ; Passano, I noveTl. italiani in verso, p. 64.
Un’altra edizione comparve a Firenze nel 1567 (cfr. G. Milchsack, Due farse
del sec. XVI riprodotta sulle antiche stampe con la descrizione ragionata
del voi. miscellaneo della biblioteca di Wolfenbiittel contenente Poemetti
popolari italiani, con aggiunte di A. D’Ancona, Bologna, 1882, p. 154): una
terza pure a Firenze nel 1570 (cfr. G. Milchsack, Op. cit., p. 284). Altre edi¬
zioni popolari si fecero nel secolo XVII e nel XVIII ; l’ultima che io conosco
è del 1823.
(2) Cfr. A. Corsini, Il costume del medico nelle pitture fiorentine del Ri-
nascimento, Firenze, 1912.
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62
R. LEVI
Romanoi'um, quello di lnnsbruck, reca la data : 1342. Gli altri,
e sono assai più di un centinaio, appartengono al secolo XIV
e al XV.
Sebbene tutte le stampe siano fiorentine o toscane, dell’ori-
• gine toscana del cantare farebbero dubitare le numerose forme
e rime settentrionali (1). Ma in questa letteratura popolare,
randagia per carattere e per necessità, può darsi che quelle
tracce dialettali si debbano, piuttosto che all’autore, a succes¬
sivi rimaneggiamenti di cantastorie non toscani.
IX.
La donna del Vergiù.
La Chaste laine de Vergi è uno dei poemi più squisiti e più
delicati della poesia del medio evo. Rapidamente, nel breve giro
di soli 958 ottosillabi a rima baciata, l’anonimo trovèro ha sa¬
puto esporre la tragica storia d’amore e, quasi in iscorcio, ri¬
trarre il profilo sicuro e tagliente dei suoi personaggi. In Bor¬
gogna sorgevano l'uno accanto all’altro due castelli: quello di
Vergi (oggi Vergy, nel comune di Ruelle, dip. della Costa d’oro)
e il castello dei duchi di Borgogna, Argilly, pure nella Costa
d’oro. Nel castello di Vergi abitava una fanciulla, nipote del
duca di Borgogna, la quale era innamorata d’un cavaliere prode
ed ardito. Ma ella era maritata e doveva celare con ogni cura
il suo cuore e il suo afletto. Per mantenere il segreto, aveva
pensato ad un’astuzia sottile: quando ella era sola e il cavaliere
poteva liberamente entrare nel verziere e nel castello, ella la¬
sciava libero dal guinzaglio un cagnolino; da un cantuccio del
verziere, donde spiava l’atteso momento, il cavaliere vedeva il
cane « par le vergier aler » e accorreva nella camera di lei.
(1) Cfr. tote, tavole, XXVIII, 5 — zambra, camera, XXXV, 7; II, XIV', 1
— audacia, sazia, LX1I, 5, eco.
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1 CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
63
Ma nel frattempo si incapriccia del bel cavaliere anche la du¬
chessa e un giorno ella gli dice a chiare parole il suo amore.
Ma egli risponde:
91 ... de cele amor Dieus me g&rt
qu’a moi n’a vous tort cele part
ou la honte mon seignor gise,
qu'a nul fuer ne a nule guise
n’enprendroie tei meprison
cornine de fere trahison
si vilaine et si desloial
98 vers mon droit seignor naturai.
Esasperata da questo diniego, la duchessa giura di vendicarsi
e si duole col duca d’esser stata oltraggiata dal cavaliere. Per
discolparsi di fronte al duca, il cavaliere è costretto a rivelare
il segreto del suo amore. Dopo una lunga lotta angosciosa, dopo
mille dubbi tormentosi, s’egli dovesse partire in silenzio senza
rivedere mai più la sua donna, o — pur di potersi trattenere
accanto a lei — dovesse invece infrangere il giuramento e il
segreto, alla fine, piangendo, egli si decide alla gran rivelazione.
« Piangendo gli ha detto: — Signore, ebbene io vi dirò, io amo
« vostra nipote di Vergi, ed ella me, quanto più è possibile
« amare » (341-3). Ma il duca non gli credo, perchè nessuno fi¬
nora s’era accorto di quel misterioso legame, e vuole qualche
particolare del segreto, che egli ritiene un’invenzione del cava¬
liere. Questi gli racconta du petit chien la maniere e una notte
conduce l’incredulo signore nel giardino perch’egli veda coi
propri occhi e se ne convinca. Appena la bellissima dama scorge
tra le piante appressarsi il cavaliere, subito accorre, gli getta
al collo le belle braccia, e cento e cento volte lo bacia senza
una sola parola. Ed egli risponde con abbracci agli abbracci,
con baci ai baci e dice: Mia signora! Mia amica! Mio cuore!
Mia amorosa! Mia speranza!
400 De la chambre vers lui sailli,
et de ses biaus braz l’aeole
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(>i
E. LIVI
et plus de cent fois le besa
ainz que feist longue parole.
Et cil la rebese et acole
et li dist: — Ma dame, tn'amie,
in’amor, mon cuer, ma dru*?rie,
ra’esperance et tout qu&nques j’aim —
Eie rediat : — Mon douz seignor,
mes douz amis, ma donce amor,
onques puis ne fu jor ne eure
que ne m’anuiast la demeure;
me ore de riens ne me dueil
car j’ai o moi ce que je vueil,
quant ai eates sains et haitiez,
418 et li tres bien venuz soiez! —
Per tutta la notte dura il colloquio d'amore; alle prime luci
dell’alba il duca, che è sempre nascosto nel giardino, vede ap¬
parire la dama di Vergi sull’uscio, accanto all'amico suo, e dargli
baci e baci rendergli e sospirare e piangere amaramente. E
quando alla fine il cavaliere si spicca da lei, ella lo segue an¬
cora, nella via, coi suoi begli occhi, lontano lontano:
472 Li chevaliers en tele maniere
s’en part et la dame l’uis dot;
mes tant comme veoir le pot,
le convoia de ses biaus ieus,
476 quant’ele ne pot fere mieus.
Il duca ridona la sua fiducia e il suo affetto al cavaliere e
una sera, durante un pranzo, lo colma di tante gentilezze e ca¬
rezze che la duchessa, sdegnata, finge di sentirsi male ed esce
dalla sala del convito per andare a sfogare sulle coltri del letto
la sua rabbia e il dispetto. Il duca la raggiunge e le rivolge
mille parole affettuose senza riuscire mai a trarla dalla sua pro¬
fonda disperazione. Durante tutta la notte il povero marito, che
ama veramente la duchessa, rinnova invano i suoi tentativi. La
scaltra douna esaspera lo sposo con la sua glaciale durezza, poi,
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
65
a tratti, cerca di commuoverlo col suo pianto dirotto ; insomma
con tutte le arti innumerevoli di che è ricco il cuore femminile
riesce finalmente a strappargli il segreto della dama di Vergi.
Il giorno di Pentecoste nel castello di Argilly v’era grande
adunata di cavalieri e di dame e tra l’altre v’era pure la ca¬
stellana di Vergi. Appena la duchessa la vide, il sangue le diede
un tuffo:
689 Et quant la duchoise la vit,
tantost toz li sana li freinist.
Tolte le tavole, la duchessa condusse tutte le signore nelle
sue stanze perchè si acconciassero per le danze, che allora si
sarebbero cominciate ; e nella conversazione non potè trattenersi
dal lanciare qualche frizzo alla sua nemica e un’allusione vil¬
lana al segreto di lei. E poi tutte escono per recarsi alle danze.
Rimanè sola la castellana, col cuore in tumulto per quelle pa¬
role che ha udito. Ella si lascia cadere sul letto e chiede a Dio
perchè il suo amico, al qualè tutto ha dato, anima e corpo, e
che è tutto il suo mondo, la sua ricchezza e la sua gioia, perchè
egli l’abbia tradita cosi. Ora l’amore è scomparso, il tradimento
l’ha ucciso: a che vivere ancora? Ed ella prega Dio che le tolga
la vita, che le è ormai inutile e insopportabile. A queste parole
il cuore le vien meno, le guancie si fanno pallide : ed ella giace
in mezzo al letto, rigida e bianca come fosse morbi:
835 A eest mot de sez braz s’estraint,
li cuers li fault, li vis li taint;
angoisseusenient s’est pasmée
et gist pale et descolorée
839 en mi le lit, morte sanz vie.
Il cavaliere e il duca si meravigliano di non vedere tra le
danzatrici la bellissima dama; il duca crede ch’ella si sia appar¬
tata coll’intenzione di parlare al cavaliere e perciò ordina a
questo di andarla a ricercare. Egli la trova stesa sul letto, im¬
mobile e pallida: la bacia e sente che le labbra sono fredde.
Giornale storica — Sappi. n # 16 . 6
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66
K. LEVI
— Che cosa è questo? Oimè, morta è l’amica mia! — esclama,
e presa una spada, si trafigge e si getta accanto al cadavere
della sua fanciulla. Quando il duca sopraggiunge, trova i due
amanti immersi, l’uno accanto all'altro, nel sonno eterno. Non
dice una sillaba; trae, silenzioso, dalla ferita la spada sangui¬
nante e con essa si reca in mezzo alla schiera delle danzatrici
e spicca il capo della duchessa. Da quel giorno nessuno ha mai
più visto il duca sorridere ; egli si crociò, andò oltremare e non
ne ritornò più (t):
939 Mes de l’aventure ot tele ire
c’onques puis ne l’oi on rire;
errant se croisa d’outre mer,
ou il ala sanz retorner,
943 si il devint ilneques Templiers.
Nonostante l’ingenuità di certi tratti e di certi accorgimenti
dell’antico troverò, anzi forse per virtù di essa, questo poemetto
apparve ed appare un vero capolavoro ed ebbe attraverso i se¬
coli una fama sempre verde e viva (2). Non vi ò, si può dire,
testo antico che non citi, accanto ad Isotta e a Tristano, il nome
del cavaliere e della castellana di Vergi. Negli avori delle cas¬
sette nuziali, delle scatolette da profumo, negli affreschi dei pa¬
lazzi magnatizi, nelle miniature dei libri, dovunque, uomini e
donne bramavano sempre vedere rappresentati l’effigie della ca-
(1) Mi valgo dell’ediz. curata da G. Raynaud, Lo chastelaine de Vergi, in
Romania, voi. XXI (1892), pp. 145-193, e del volume dei classici francesi
del Medioevo, edito dal medesimo Raynaud, La chastelaine de Vergi, poème
du XIII• siede, Paris, 1910.
(2) Dna bella analisi psicologica dei personaggi ci ha dato W. SOderhjelm,
La noui-eUe frangcùse au XV* siècle, Paris, 1910, p. 6 e segg. Per quanto
riguarda la fortuna della Castellana di Vergi debbo rinviare alle poche ma
dense pagine del Raynaud (nella Romania, XXI, p. 155 e segg.) e a un molto
infelice libercolo di E. Lorenz, Die KasteUanin von Vergi in der Literatw
Frankreichs, Itaiiens, der Neederl., Englands und Deutschlands mit einer
deutschen Uebersetsung der altfr. Versnovelle, ecc., Halle a. S., 1909.
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—JJRBANA^ GHAM PAKjN
I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
67
stellana infelice e gli episodi della tragica storia (1). Ed è vera¬
mente spiacevole che su un argomento, che ha fatto fremere
tanti cuori e ha sbrigliato tante fantasie, la critica moderna, che
è cosi curiosa, non abbia saputo ancora darci un buon lavoro
complessivo ed esauriente.
La tragica avventura d’amore e di morte ha forse un fondo sto¬
rico. La castellana di Vergi è detta nel poemetto nipote del duca
di Borgogna: e infatti durante il secolo XIII vi furono due nipoti
dei duchi di Borgogna, che ebbero il nome del castello maritale di
Vergi, Isabella e Laura. Ragioni di cronologia escludono la prima
e rendono evidente l’identificazione della seconda con l’eroina
della nostra leggenda. Laura mori verso il 1282. Il duca deve
essere Ugo IV, del quale in realtà i documenti dicono che si
fece crociato e mori, di ritorno da un pellegrinaggio, nel 1272.
Egli ebbe due mogli, Jolanda e Beatrice. Costei è la duchessa
del poemetto. Sappiamo che dopo la morte di Ugo IV, Beatrice
si ritirò dalla Corte e andò a vivere nel proprio castello di Isle-
sur-Montréal, sempre perseguendo certe liti coi figli di primo
letto del duca di Borgogna. E dopo la morte di lei, la sua fi¬
gliuola Isabella, moglie di Rodolfo d’Absburgo, pretese dal fra¬
tellastro Roberto di Borgogna la restituzione di un certo cofano
contenente delle lettere intime molto importanti. Quel cofano
era scomparso; esso forse conteneva l’unica traccia storica della
(1) Una cassetta di avorio, che è al British Museuin di Londra e reca in¬
tagliati alcuni episodi della Chastelaine, fu illustrata da K. Bokixski, in Mo-
natshefte fiir Kutud wissensch a fi , voi. II (1909), P. I, pp. 58-68. Altri avori,
anch’essi di provenienza francese, pare, sono nel Museo del Bargello di Firenze
nella collezione Carrand. Un avorio con una scena del poema è riprodotto
dal Sl’chiek, Gexchichte der frani òttiche n Litteratur, p. 207. Secondo K. Bo-
rinski, Dai NoveUenbild in der Cam Buonarroti, in Monatshefle fiir Kunst-
wissenschafì, voi. I, P. II (1908), p. 906 e sgg., quel presunto ritratto di Raf¬
faello e della sua amante, che è nella casa Buonarroti e viene attribuito a
Sebastiano del Piombo, sarebbe invece un’opera di pennello veneziano (Gior-
gione-Tiziano) e rappresenterebbe gli amanti infelici della vecchia leggenda
di Borgogna, rievocata nel Cinquecento, innanzi alla società cortigiana di
Cremona e di Mantova, da Matteo Bandello nella nov. IV, 5.
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68
I. LEVI
tragedia che insanguinò la corte e la vita di Beatrice di Bor¬
gogna. La sanguinosa avventura, se i personaggi del poema sono
proprio quelli che ora ho indicati, dovette compiersi fra il 1267
e il 1272; il poema è forse posteriore di un decennio (1282-1288).
Il Raynaud dice che la sparizione del misterioso cofano richiesto
da Isabella d'Absburgo costituisce una perdita irreparabile per
lo studio della leggenda (1). Per quanto suggestiva e sorridente
sia l’idea di quei documenti rivelatori, io credo che, se pure
essi per una fortunata combinazione potessero ritrovarsi, non
recherebbero alcuna luce sul poema, perchè il nucleo della leg¬
genda è mitico e fantastico, e non già storico. La storia deve
aver prestato alla poesia qualche nome, qualche particolare (per
esempio, il crociarsi che fa Ugo di Borgogna dietro Luigi IX)
e forse qualche spunto; nuH’altro. Lo svolgimento dell’avventura
è fantastico ed è simile in tutto a quello delle leggende che ab¬
biamo lette nei lais di Lanval e di Graelent e nei cantari
italiani che ne derivano, Bel Gherardino, Liomlrt'uno e Pul¬
zella Gaia. Le lusinghe della duchessa verso il bel cavaliere sono
pur sempre gli allettamenti della Regina rispetto a Galvano nella
Pulzella Gaia , di fronte a Lanval nel lai di Maria di Francia,
a Graelent nel lai anonimo; e la sdegnosa ripulsa dell'amante
della castellana è una ripetizione evidente del contegno nobile
e austero di Galvano, di Lanval e di Graelent. L'amore che vive
nel segreto e viene ucciso dalla rivelazione dei maligni ciarlieri
è un motivo dei più comuni della poesia leggendaria; per aver
infranto il segreto Bel Gherardino perde l'amore della Fata
Bianca, Galvano quello della Pulzella Gaia. Parthenopeus, nel
romanzo francese omonimo, con una lampada illumina il viso
della sua amica Mélior, che dorme; e la perde per sempre.
Amore perdette in simile modo Psiche (2). Storico è dunque
l'apparato esteriore della leggenda della Castellana di Vergi \
(1) Romania, XXI, 154.
(2) Cfr. Axel Ahlstròm, Studier i den forne-frnnska lais-literaturen \ Aka-
demisk-abh&ndlingUpsala, 1892. p. 70.
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1 CANTASI LEGGENDARI ITALIANI
69
ina gli elementi intimi della poesia sono umani ed eterni e nulla
v'hanno a che fare la Francia e la Borgogna. È sempre la fiamma
animatrice del mito biblico di Giuseppe e della moglie di Pu-
tifarre e del mito classico di Amore e di Psiche, che arde e
splende in questi miti medievali della sua luce tranquilla ed
uguale. Insomma la leggenda della Castellana di Vergi , nono¬
stante l’apparato storico del sec. XIII, si ricollega evidentemente
col tipo dei racconti mitici di origine assai più antica, che ha
la sua più perfetta espressione nei lais di Lanval e di Graelent
e nei testi paralleli italiani, i cantari di Gherardino , della Pul¬
zella Gaia e di Ltombruno.
Il poemetto della Chastelaine de Vergi fu composto nel penul¬
timo decennio del secolo XIII da un trovèro che viveva in Bor¬
gogna, probabilmente alla corte dei duchi Ugo e Roberto. Ora,
noi conosciamo molti trovèri borgognoni, ai quali potrebbe at¬
tribuirei il poemetto, ma, tra tutti, quello che per le sue rela¬
zioni con la Corte di Borgogna ha maggiori diritti sulla Chas¬
telaine , è Perrin d’Angicourt. Egli dedicò alcune canzoni a
Enrico di Brabante genero del duca Ugo di Borgogna e accom¬
pagnò nella spedizione nel Regno di Napoli Carlo d’Angiò, sposo
di Margherita, nipote di Ugo (1) e lasciò traccia di sè in nu¬
merose carte napoletane (2). Se egli fu veramente l’autore del
delizioso poemetto, si spiegherebbe assai bene la .larga diffu¬
sione che ebbe nel secolo XIV in Italia la leggenda della dama
del Verziere e la frequenza delle figurazioni plastiche del ce¬
lebre episodio nell’arte antica italiana.
Nel Decanierone , alla fine della terza giornata il Boccaccio
ci racconta (III, 10):
(1) Cfr. E. Petit, Histoire des ducs de Bourgogne de la race Capétienne,
1894, voi. V, pp. 119-125.
(2) Cfr. G. Steffens, Die Lieder des Troveors Perrin mn Angicourt, Halle,
1905; G. Bertoni, Di un poeta francese in Italia alla corte di Carlo d'Angiò
(Perrin d'Angicourt), Catania, 1913.
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70
E. LEVI
Dioneo e la Fiammetta cominciarono a cantare di inesser Guiglielmo e
della dama del Vergiù; Filomena e Fallitilo si diedono a giucare a scacchi.
Gaston Paris (i) erode che il Boccaccio qui accenni a due dif¬
ferenti cantari , il cantare della donna del Vergili e il cantare
di messer Guglielmo, cioè di Guglielmo Guardastagno (Dee., IV, 9).
Ma non c'è bisogno di dire che il cantare di Guglielmo Guar¬
dastagno non è inai esistito e che « messer Guglielmo » è il
nome che il cantare italiano prestò al leggendario amante della
castellana di Vergi.
E curiosa la forma Vergivi, assunta nel Decamerone dall'origi¬
nario Vergy borgognone. Tutti gli italiani del Trecento dicevano
e scrivevano veramente Vergiti, come il Boccaccio: « chomincia
* la storia de la donna del rergu (2) et di messer Ghuglielmo,
« piacievolissima choxa » dice il titolo messo in fronte al can¬
tare, nel codice riceardiano (3); e il codice moreniano (4): « qui
« inchomincia la dama del verzù ». Anche nel corso del cantare
verzù, o toscanamente cerzia? è la forma costante di Vergy
(ott. V, 3; X, 8):
e in istante
al verzue giva e la cùcciola avante.
Una spiegazione, che a prima vista parrebbe plausibile, di
quella forma bizzarra è che Yu dei nostri testi sia frutto d’una
interpretazione inesatta dell' y dei manoscritti francesi. Se cosi
è, lo svolgimento e la diffusione della leggenda dovrebbero im¬
maginarsi avvenuti solo per via di libri e di scritture e biso¬
gnerebbe escludere ogni influenza della recitazione e dei rac¬
conti orali, perchè l’udire la vera pronuncia da bocca francese
avrebbe presto rettificato l’errore di lettura commesso dai co-
fi) Romania, Vili, 371.
(2) Da leggere : ver giù.
(3) Riccard. 2733, c. 112 a.
(4) Cod. Bigazzi 213 nella Biblioteca Moreniana (appart. alla provincia di
Firenze), c. 20 b.
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I CANTASI LEGGENDARI ITALIANI
71
pisti. Questa esclusione mi sembra difficile ad ammettersi in un
tempo in cui l’Italia era come una gran caserma di soldati e di
cavalieri guasconi, brettoni, borgognoni e francesi, e il più vasto
regno della penisola era signoreggiato dalla dinastia Angioina.
Per evitare questa difficoltà occorre allora supporre piuttosto che
Yu di Vergili sia non una rappresentazione grafica inesatta, ma
un rozzo tentativo di riprodurre in bocca toscana i suoni così
oscillanti e diffìcili dell 'i e dell ’u e dell’intermedio u francese.
Alla tragica morte della dama del Verziere accenna un passo
del Filogeo del veneziano Sabelo Michiel (1370):
Perchè la morte, a noi sì studiosa,
fesse vegnir la fama
di fuora al mondo, di Tisbe amorosa
e perchè afferrasse, tanto grama,
la dama di Borgogna,
che nel verzier tesseva la sua trama,
non de’ però paura nè vergogna
tener le umane voglie
in tutto fuori della sua bisogna...
Se ben si feo la neza del conte
a sè stessa nimica,
levando al mondo la polita fronte,
non è che meraviglia chi notrica
perchè, ove doglia ascende,
angelico voler non s’affatica.
La dama del Verziere è compresa tra le altre donne leggen¬
darie che Malagigi, per arte magica, istoria sulle pareti della sala
della principessa Lucrezia, nel cantare trecentesco (1370-1380)
della Sala di Malagigi :
(ott. XXII) Medea, Lucrezia, quella vaga donna,
la vigorosa dama del verzieri (1).
(1) P. R.una, La Sala di Malagigi, Imola, 1871 (nozze Nissim-D’Ancona),
p. 14. — Forse in luogo di righorosa (come leggono veramente i due codd.
riccard. 1091, c. 132 e 2816, c. 121) si dovrà porre rigorosa.
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72
K. LETI
Tra gli amanti celebri enumerati nel Pome del Bel Fioretto
di Domenico da Prato sono pure messer Guglielmo e l’eroina
del nostro cantare (1):
(c. Ili, ott. 19) Ancor sì vede alla mutata gelsa
Piranto e Tisbe ; al lato ha 1 cavalieri
Messer Guglielmo, la cui fama è excelsa
insieme colla dama del Verzieri,
e Pagolo e Francesca...
Lo stesso messer Domenico da Prato si compiace di citare
un'altra volta ancora nelle sue opere la tragica storia di Bor¬
gogna; in una Pistola d’amore, che racchiude una canzone
« morale » e una canzonetta da ballo coi relativi commenti (2),
una stanza della canzonetta dice:
Meleagro et Atalante
et Palimone e Emilia,
Narcisse di sè amante
con più di cento milia
cantando tua vigilia,
con Isotta et Tristano
Messer Guiglielmo et la dea del Yerzore.
Ben è felice il core — ecc.
E nel commento che segue: — « D'Isotta e di Tristano et
« della reina Ginevra et d'altri erranti cavalieri non ridico,
« perchè a tutta gente è manifesto quanto fu il loro perfettis¬
simo amore. Et simile di messer Guiglielmo et del Ver¬
nieri la dama come per quella malvagia duchessa mori-
<c rono ». Nella stanza da letto del secondo piano del Palazzo
(1) Domenico da Prato, Il Pome del Bel Fioretto, per cura di Pietro Pan¬
tani, Firenze, 1863, p. 51.
(2) La Pistola del detto Domenico, ecc. fu pubblicata dal codice Lauren-
ziano XLI, 40 da A. Wesselofski, in appendice al YIntrod. al Paradiso degli
Alberti di Giov. Gherakdi da Prato, Bologna, 1886, voi. I, P. II, pp. 368-372.
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1 CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
73
Davanzati, a Firenze, gli affreschi che ricoprono all’intorno le pa¬
reti, compiuti forse nel 1395 in occasione delle nozze di Tom¬
maso Davizzi con Catelana degli Alberti, rappresentano fedel-
mente, passo passo, tutti gli episodi del Cantare della donna
del Vergiti (1). Che queste pitture siano tratte proprio dalle
ottave del cantare e non dal poemetto francese, lo prova la scena
del giuoco degli scacchi, di cui non è traccia nel poemetto ed è
invece cosi descritta nell’ott. XVII del Cantare:
T T n giorno er’ito el Duca a suo diletto
fuor della terra a un suo ricco palazzo,
e la duchessa sanza ignun sospetto
prese Riesser Guglielmo per lo brazzo
e menósselo in zambra, a lato al letto,
ragionandosi insieme con sollazzo.
E per giuocar la donna e *1 cavaliere
fece venir gli scacchi e lo scacchiere.
Il pittore ha seguito il poeta del cantare anche nella rozza
rappresentazione ch’egli ci ha dato della morte della castellana.
Mentro nel poemetto francese la morte avviene improvvisamente,
dopo quel monologo disperato, che fu definito una delle più ap¬
passionate rivelazioni di dolore di tutta la poesia del Medio Evo,
nel cantare quel disperato struggimento e quel semplice atteg¬
giamento di infinita amarezza sono rozzamente contraffatti e tutti
insudiciati dalla più scimunita retorica. Basti dire che mentre
si lamenta del tradimento, la dama (ott. EIX):
(1) Cfr. W. Bombi:, Un rotnan frangati dans un palaie florentin, nell»
Gaiette dee beatuc-arts del luglio 1911 e poi, più ampiamente, nella « co¬
municazione > fatta all’ Istituto germanico per la storia dell’arte in Fi¬
renze, Die Nocelle der Kastellanin con Vergi in einer Freskenfolge des pa¬
lazzo Da vizzi-Da vatuat i su Floreiu, Berlin, 1912. Su queste pubblicazioni
di W. Bombe e so gli affreschi del palazzo Davanzati si veda il mio articolo
La castellana di Vergi, nella Bassegm bibliogr. della lett. ital., Pisa, 1913,
voi. XXI, pp. 41-45.
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74
K. LEVI
nella man destra ignuda avea la spada
e la cucciola nel sinistro braccio.
Ebbene: anche negli affreschi del Palazzo Davanzati la mo¬
rente è rappresentata con una spada nella mano destra e col
cane nella sinistra! Durante il Rinascimento il melanconico can¬
tare cadde in dimenticanza; solo iu Toscana, e specialmente a
Pisa, se ne sfogliava ancora qualche manoscritto. Quando a Ca¬
salmaggiore, al principio del ’500, davanti alle dame e ai cava¬
lieri della corte gonzaghesca « uno gentiluomo borgognone chia-
« mato Edimondo Orflec » prese a raccontare la vecchia storia
tragica, essa parve cosa nuovissima e tutti riempi « di stupore
« e di pietà », tanto da strappare le lagrime. E il Bandello, che era
tra gli ascoltatori, perchè nulla « dalla memoria gli uscisse *
volle subito farsi raccontare da quel borgognone un’altra volta
la vecchia novella e ne « annotò » le parti, che, appena giunto
a Milano, poi trascrisse per disteso (1). Cosi almeno ci racconta
il Bandello; ma dubito che qui il buon frate lombardo non ci
voglia vendere del fumo o che almeno non gliel’abbia venduto
queU’Edimondo Orflec borgognone, perchè tutta la novella, an¬
ziché rifatta su racconti orali e frammenti ed appunti, non è altro
che una riduzione della nov. 70 della settima giornata del-
YHeptamèron di Margherita di Navarra, la quale alla sua volta
segue passo passo il poemetto « en vieil langaige » (2). La sola
(1) E la nov. IV, 5 del Novelliere, nell’ediz. di G. Brognoligo, nella collez.
degli Scrittori (VItalia, Bari, 1912, voi. V, pp. 117-147.
(2) E. Lorknz, Op. cit., pp. 68-76, sostiene che la novella del Bandello sia
l’originale e quella di Margherita di Navarra la traduzione. L ’Heptenncron
fu pubblicato nel 1558; la nov. del Bandello soltanto nel 1578, nella quarta
parte del novelliere, ed. a Lione presso Alessandro Marsili. Con una robusta e
serrata dissertazione A. L. Stiekel, Die Chastelaine de ìergy bei Marya-
rete roti Navarra und bei Matteo Bandello, nella Zeitschnft fiir fratieòsitche
Spraehe und Litteratur, XXXVI (1910), pp. 103-115, ha dimostrato che
l'assunto del Lorenz è compiutamente errato e che la novella del vescovo di
Agen è un vero e proprio plagio di quello della regina Margherita. Quanto
al racconto tenuto a Casalmaggiore nel 1518 da quel borgognone Edimondo
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
75
novità del Bandello è il nome del cavaliere amante della castel¬
lana, che non è più « inesser Guglielmo », come afferma il Boc¬
caccio con la scorta del cantare della Donna del Vergili , ma
« Carlo Valdrio ». La lungaggine della novella del Bandello è
uggiosa e irritante; la trivialità di alcuni tratti ci colpisce come
un’offesa. Tra le grosse mani di quell’uomo del Cinquecento la
leggenda antica si sfoglia come un povero fiore delicato e av¬
vizzito (1). E non v’è cosa al mondo così tragica e triste come
il morire d'una grande poesia.
Il cantare trecentesco della Donna del Vergiti si legge in due
manoscritti pisani della fine del Quattrocento (2) e dall’ uno di
essi fu pubblicato nel 1861 da Salvatore Bongi, ma in un modo
così arbitrario e ghiribizzoso da rendere irriconoscibile il testo
primitivo. Le sciagure cominciarono persino dal titolo; non
avendo bene decifrato il manoscritto, o non conoscendo il poe¬
metto francese originario, il Bongi mutò la Danna del Vergiti
Horflec, lo Stiefel propende a credere che sia anch’esso un’invenzione del
Bandello, perchè se in realtà egli avesse conosciuto così anticamente la bel¬
lissima novella, l'avrebbe compresa nei primi tre volumi delle Novelle, usciti
nel 1554, e non avrebbe atteso il quarto. In ogni modo, anche ammettendo
la verità storica di quei colloqui di Casalmaggiore, bisogna pensare che poi
il Bandello abbia lasciati da parte i ricordi e gli appunti presi durante di
essi, per attenersi senz’altro al libro della regina di Navarra. — Il diritto e
lucido ragionamento dello Stiefel pone fuori di discussione l’ipotesi del Lorenz,
che fu sostenuta anche tra noi, con qualche buon argomento, da P. Toldo,
Contributo allo studio della novella francese del XV e XVI secolo, Roma,
1895, p. 63 e segg.
(1) Sulla fortuna della leggenda nella letteratura drammatica e nella no¬
vella dal Seicento al Romanticismo può servire qualche pagina del libro del
Lorenz. Ma il lavoro andrebbe in gran parte rifatto.
(2) 1) Codice Riccard. 2733, scritto da Fruosino di Ludovico di Cece da
Yerazzano nei mesi di luglio e di agosto del 1481, a Pisa, mentre egli era
castellano del Palazzotto. — 2) Cod. Morcniano-Bigazzi 213; è descritto dal
D’Ancona, il quale lo studiò nel 1870, quando esso ancora era proprietà del
prete Stefano Monini, priore dei Bagni di S. Giuliano, nell’articolo: La vi¬
sione di Ven us, antico poemetto popolare, nel Giornale di filologia romanza,
1878, voi. I, p. Ili e segg.
t
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76
K. LIVI
nella Donna del Verziere ; e poi per restituire, com'egli dice,
« il verso, il senso, la rima », delle settanta ottave del cantare,
quindici ne rifece di pianta (1).
(1) La Moria della dotata del Verziere e di mescer Guglielmo tratta da un
codice riceardiano del sec. XV, Lucca, per B. Canovetti, 1861 (8®, pp. 32).
Per dare un’idea delle sconciature dell’ediz. Bonjfi, ne riferirò qualche ottava,
ponendo a fronte il testo com’io l’ho ricostruito dai niss.:
Fiore di leggende:
a
Nulla si bella sita era, nè più,
allora nè oristiana o saracina
e nome avea la donna del Vergiù,
ohe più splendea ohe stella mattutina.
RI padre suo nobil barone fu,
sua madre era figliuola di regina ;
e quando essi del secol trapasserò
si gli lasciaro un ricco tenitóre.
H
11 palazzo dove ella dimorava
avea dintorno un nobile vergiero,
ed una cucciolina, che ’l guardava,
per me* la porta stava in sul sentiero ;
quando messer Guglielmo v’arrivava,
ed ella conosceva il cavaliere,
sed esso ave' compagna*», ella lativa
tanto che del giardin e* si partiva.
15
Ella ohe ha mosso in lui ogni sua speme
e cielato l'amore oltra misura,
si che '1 disio d'amor nel core prieme,
in gelosia ne vive ed in paura,
e lagrime degli occhi il viso gieme.
Presente quella nobil creatura,
diceva: - Amor perchè m’hai cosi arso
di costui, che d'amor m'è cosi scarso? —
Partissi il cavalier doglioso e gramo
veggendo la duohesa piena d'ira
e quasi di pazzia menava ramo,
si dolorosamente ne sospira ; *
e di partirsi quindi gli era bramo.
E la duchessa ta' parole spira
che giammai non l’amò per tal follia;
Usci di zambra ed andossene via.
Tento del lìongi:
5
Donna si bella non si può vedere
fra la gente cristiana o saracina
e nome avea la donna del Verziere.
Più risplendea che stella mattutina:
il padre fu baron di gran potere,
e la madre figliuola di regina,
e quando essi dal secol trapasserò
si gli lasciaro un ricoo tenitore.
Il loco ove la donna dimorava
avea d’intorno un nobile verziere
ed una cucciolina che '1 guardava
ohe bene conoscieva il cavaliere;
quando Messer Guglielmo solo andava,
gli giva innanzi e mostrava il sentiero,
ma latrava s’egli era in compagnia,
tanto che dal giardin non dipartia.
15
Certo ch'egli è de' cavalieri il fiore
(dicea fra sè) di be' costumi ornato,
e se in loco sì degno ho posto amore,
per men grave de' aversi il mio peccato,
non sa oome mostrar l'interno ardore
e tener più noi può chiuso e celato,
dicendo, amor, perchè m’hai così arso,
di costui che d'amor m'è così scarso?
55
Partissi il cavalier molto dolente
lasciando la duchessa ohe piangea
e chiamava lui falso e sconoscente,
ohe tanto oltraggio a sua beltà facea.
E già tristi pensier nutriva in mente
eh’in ira volto il folle amor avea
e '1 nemico di Dio potè sì forte
che trovò il modo di mandarlo a morte.
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
77
I critici della leggenda (i) sono concordi nel ritenere la
Donna del Vergiti opera di Antonio Pucci. Ma per quale ragione
si debba accrescere anche di questo poemetto il fardello, che è
già assai pesante, del banditore fiorentino, io non vedo dav¬
vero. Certo l’autore della Donna del Vergiti era un cantastorie
rozzo ed incolto, perchè la fattura del verso è assai sciatta e
la poesia è senza finezza e senz’arte (2). Alcune forme dialet¬
tali (come verzù, zambra , brazzo ) parrebbero escludere una
penna fiorentina e toscana e farebbero pensare piuttosto a un
uomo d’oltre Appennino; ma la poesia leggendaria era ran-
s»
Toroesi el duca con sì caldo sangue
per ira avea rosso la faooia e gli occhi.
Per temenza la sua famiglia langue
e que’ ohe non languivano eran soiocohi,
e di lui non sarebbe uscito sangue
ohi Pavese* tagliato tutto a rocchi.
E sospirava come ferito orso
Dello dubievol caso, ch’era occorso.
41
El cavalier di subito fu mosso
con sei valletti gl su pelle scala
oon un mante! di drappo bruno addosso,
e lagrime degli ooohi in viso cala,
la pelle gli parea cucita addosso ;
e giunse al duca, ch’era suso in sala.
Di questo il duca co 'la sua famiglia,
vedendolo, ciascun si maraviglia.
4 ?
E, poi oh'ebbe la oucciola sentuta,
si fò la damigella rivestire
e poco stante a lui ne fu venuta,
a que’ ch’a forza la dovea tradire.
Ma non si pensava ella esser traduta
da quegli in cui avea messo il suo disire
e non pensando del tradir l’effetto
e prese col suo drudo ogni diletto.
sa
Torcesi il Duca a sì triste ventura
siccome l’angue ohe ’1 villan percosse
la sua famiglia trema di paura
come se il giorno del giudizio fosse.
Avea la cera spaventata e scura
e per Pira e ’l dolor le guance rosse
e sospirava come ferito orso
dello dubievole caso ch’era occorso.
41
El cavaliere a così triste avviso
co’ suoi valletti andò dal suo signore;
l’acerba doglia si leggea sul viso,
s’era vestito di bruno oolore;
e prima si vorrebbe essere ucciso
ohe in tal modo passar per traditore;
e giunse ov’è il signor oon la famiglia
ohe veggendol così si meraviglia.
47
E poi ch’ebbe la oucciola sentuta
si fe’ la damigella rivestire;
e poco stante fe’ la sua venuta
a que' oh’a forza la dovea tradire;
e, lassa, non sapea ch’era veduta
e che ella avea sì presto a morire;
e non pensò del traditor l’effetto,
che col drudo si prese ogni diletto.
(1) Cfr. E. Lorenz, Die Kasteìlanin von V ergi dt., p. 33 e segg.;W. Bombe,
Die Kasteìlanin von Vergi , p. 4.
(2) Moltissime volte si ha nel cantare la dialefe, una volta (XVIII, 6) asso¬
nanza; il medesimo verso è ripetuto in due ottave differenti (X, 5 e XVIII, 2).
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78
E. LETI
dagia e forse raccattò quei vezzi lombardi nelle sue peregrina¬
zioni per le piazze.
È importante, per determinare l’origine della Donna del
Vergiti , la citazione d’una tragica avventura d’amore racchiusa
nel Tristano riccardiano, che si ha nell’ott. 58:
E ginnc nella camera, tremando,
siccome quella che di duol moriva
e di messer Guglielmo lamentando,
pregandone la Vergine Maria,
siccom’egli l'er ita abbominando
che lo conduca a far la morte ria,
— « come conduce me, che con mia mano
« morrò, come Belliciee (1) per Tristano »!
Il Tristano (cap. XII) racconta infatti che Bellicies, figlia del
re Ferramonte di Gaules, si uccise per l’amore, non corrisposto,
di Tristano:
Ma dappoi che Belicies seppe che Tristano s’era partito dalo reame di
Gaules e andava per dimorare in Cornovaglia, incominciòe a dare il maggior
pianto c’unqua mai fosse fatto per neuna damigiella, diciendo ella intra ssee
istessa: — Dappoi che s’èe partito colui cu’io amava più che mee, e ora no
lo veggio si come io solea fare, conosco e ssento che amore mi distringie in
tale maniera che ora mai la vita poco puotc durare. E imperciòe ch’io n’abbo
inteso che la morte è più dolorosa cosa c'altri possa sofferire; ma a me la
morte torneràe in dolzore, dappoi che lo mio amore canpai da la morte. E
perciòe io voglio morire con quella ispada, con la quale T[ristano] dovea es¬
sere morto. E allora si prese la damigiella la spada e ppuose lo pome in terra
e la punta si si puose dirittamente per me’ lo cuore, e disse : — Dolcie mio
amico Tristano, ogniuno sappia ched io m’uccido per lo tuo amore! — E in-
(1) Il cod. Riccard. ha: Bell itti, e il Moreniano: Bellisse. Il Tristano aiuta
anche a chiarire l’ott. LX, 2, dove il cod. Riccard. reca : « e achonciossi il
chore per me la punta » e il Moren. « il suo cuor poggiò per me la punta ».
Il Bombe suppone che me significhi mettere ; ma è evidente in questo passo la
parafrasi del Trist « e la punta si si puose dirittamente per me’ lo cuore ».
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
79
contanente si lasciòe cadere i-ssu la spada e fine morta incontanente. £ lo
scudiere, dappoi che la vide morta, raontòe a cavallo... (1).
11 ricordo così vivace di un racconto d’amore riferito da un
testo del Duecento è di per se stesso un probabile indizio di an¬
tichità (2). Ma qualche altro dato cronologico più chiaro e più
preciso si può desumere da altri passi del cantare. Il giullare
ci dice che dagli eventi della corte di Borgogna (1270-80) non
era ancora passato gran tempo (II, 1):
E’ non è ancora gran tempo passato
che di Borgogna avea la signoria
un Duca, che Guernieri era chiamato.
La storia della Dama del Vergiù dovrebbe essere, a quello
che egli ci assicura (I, 3), recentissima:
io vo’ la grazia tua addiinandare
e dir per rima una storia novella.
Ma queste espressioni sono convenzionali; e non possiamo at¬
tribuire ad esse molta importanza. Ben più utile è l’accenno, con¬
ti) Cfr. E. G. Parodi, 77 Tristano riccard., Bologna, 1891, pp. 27-28.
(2) La tragica storia di Bellices è raccontata anche nella Tavola ritonda
(cap. 16 e 17), la quale appartiene alla prima metà del secolo XIV. Dopo i
bellissimi episodi del primo incontro di Bellices con Tristano, dell’improvvisa
rivelazione dell’amore e della partenza di Tristano, segue la drammatica
scena del suicidio della fanciulla : « Allo’ di presente prese una spada del suo
« padre, epone lo pome in terra elapuntasipone diritto al cuore
« suo, dicendo: — Cuore del corpo mio, Tristano! Amore e diletto mio! 0
« isperanza e piacere dell’altra gente! E come m’avete abbandonata? 0 dolce
« speranza mia, tu te ne sé andato, e io per voi non voglio più la vita ! — E
« dette queste parole, si lascia cadere tutta libera in sulla punta della detta
« spada, la quale la passòe oltre dalla altra parte... >. La Tavola ritonda,
ed. cit., P. I, pp. 54-63. Nel Tristano francese in prosa l’eroina della tragica
storia ha nome Belide o Beleyde; cfr. E. LOseth, Le roman enprose de
Tristan, le roman de Palamède et la compilation de Rusticien de Pise, cit.,
pp. 18-19.
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80
E. LEVI
tenuto nell’ott. LXVIII, al passaggio del duca a Rodi per com¬
battervi gli infedeli, perchè si sa che Rodi cadde nelle inani
dei cavalieri di S. Giovanni solo nel 1309; dunque abbiamo qui
un termine sicuro « post quem ». Il termine ad quem può es¬
serci fornito dalla data del Decamerone. Infatti non è possibile
che il cantare « di messer Guglielmo e della dama del Vergili *
citato dal Boccaccio sia un’altra opera diversa dalla Donna del
Vergili , perchè non si ha traccia d’altri componimenti del Tre¬
cento intorno a questa leggenda (1) e poi perchè il nome di
« messer Guglielmo » appare un’invenzione schietta ed originale
del cantastorie della Donna del Vergiti. In nessun’altra leggenda
fuorché nel nostro poemetto l’amico della castellana porta il
nome di Guglielmo reso celebre dalla citazione del Boccaccio.
Insomma la Donna del Vergiù è opera d'uno di quei rozzi can¬
terini randagi, intorno ai quali si addensavano le folle e palpi¬
tava il vasto fremito del popolo italiano. Egli fu un grossolano
poeta, ma un accorto conoscitore della vasta materia leggen¬
daria cara alla plebe. E si può essere certi che egli compose e
intonò questo cantare prima del quinto decennio del Trecento.
(1) Una novella in prosa francese fu composta alla fine del Trecento nella
valle di Aosta. Essa si legge in un ms. che era dei Challand e poi dopo varie
vicende fu acquistato dalla Bibliot. Nazion. di Parigi (Nouvelìes acquisitions
fran^aises, 6639); e fu pubblicata, quando il cod. non aveva ancora varcate le
Alpi, dal Barone di S. Pierre nell’op. Novelle e poesie francesi inedile o ra¬
rissime del sec. XIV, Firenze, Stab. Civelli, 1888, in-foglio. Dall’analisi che
P. Meyer ne ha fatto nella Romania, XIX, 1890, pp. 340 e sgg., risulta che
tra la novella valdostana e il cantare non esiste relazione alcuna. Mentre il
cantare rispetta, pur non intendendolo, il cognome « Vergi * della castellana
(Vergiù), il novelliere suppone che il nome de vergier derivi dal dono, fatto
dal duca alla nipote, di un vero e proprio verziere. Il duca, dopo aver ucciso
la moglie, si fa monaco. L’amante della castellana, che è anonimo nel poemetto
francese e ha il nome di Guglielmo nel cantare, nella novella è chiamato Tri¬
stano: c ung nomine Trìstan son premier chevalier, quy tant estoit noble,
« vaillant et plain de toute biaulté >. — Non credo che la novella sia mai
stata conosciuta fuori dei confini della valle d’Aosta.
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1 CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
81
X.
Gibello.
Il cantare di Gibello si legge in una miscellanea toscana del
Quattrocento, che reca sulla coperta la data: « Mccccviiii a
di x febraro ». Ma il codice è posteriore, perchè contiene tra
l'altro la Rotta di Ravenna dell’Altissimo (c. 50-53) datata: 1472,
e altre scritture quattrocentine, come la novella della Figlia del
re di Dacia e il libro di Fioravanle (t). L'argomento del can¬
tare è il seguente. Tarsiano, re di Bravisse, è un uomo di in¬
finiti pregiudizi. Egli crede che ogni donna che mette alla luce
due gemelli, sia adultera e senz’altro la condanna al rogo. Ma
ecco che una notte la stessa regina partorisce due bimbi. Per
paura dell’inevitabile condanna, ella affida uno dei due gemelli
ad una nutrice, lo fa avvolgere di un drappo dorato e ordina che
sia gettato in mare. Ma giunta sulla spiaggia, la balia si impie¬
tosisce e invece di uccidere il bambino, lo regala ad alcuni
mercanti che passano. I mercanti portano il bambino in dono
ad Argogliosa, regina della città di Gienitrisse, ed Argogliosa, che
dal drappo d'oro onde è ammantato comprende ch'egli è « di
gran legnaggio » (XI), lo fa allevare con ogni cura, dandogli il
nome di Gibello.
Una volta, durante un torneo, Gibello, che aveva allora sedici
anni, abbatte e fa prigioniero un cavaliere; questi, soffocato dal¬
l'ira, rinfaccia al prode giovinetto il mistero della sua nascita.
(1) Bibl. I.aur., cod. Palat. CXIX, c. 157 « ; cfr. A. M. Bardisi, Cat. mas.
tìibl. Laur., Suppl. ITT, 331-341. — Il cantare fu pubbl. da F. Selmi, GibeUo,
novella inedita in ottava rima del buon secolo della lingua, Bologna, 1868
(Scelta di curiosità letterarie, disp. XXXV). Questa edizione è deturpata da
qualche errore di lettura del nis. e di interpretazione: agitore per reggitore
(XXXI, 4); linguaggio per ligtiaggio (XI, 5); spuntoni tal gente per spun¬
toni tagliente (LVII, 2) e infine un buffo non vi passava lasciare per non vi
lasciava passare (XXVI, 6).
Giornale storico — Suppl. n» 1«. 8
l
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82
K. LKVI
(Ribollo si mette in via per ricercare la sua gesta recando
come bandiera il drappo d’oro che aveva coperto le sue fascie
(XXIV); sconfigge e rende suoi vassalli il Cavaliero Nero e poi
il Conte Vermiglio e giunge nella città di Serpentina. Vedendo
la bellezza del giovinetto, il duca di Serpentina, per paura che
la moglie se ne innamori, lo fa gettare in carcere (XL).
Intanto Tarsiano, re di Bravisse, decide di dar moglie al
figliuolo e fa chiedere per mezzo di alcuni ambasciatori la mano
di Argogliosa; ma ella che non pensa che al suo Gibello lontano,
rifiuta. Ne nasce una guerra e Argogliosa è assediata nella sua
città, Genitrisse (XLIV).
Gibello apprende le sventure della sua protettrice, perchè il
duca di Serpentina, che è vassallo del regno di Bravisse, ac¬
corre presso Tarsiano e partecipa all’impresa contro Genitrisse.
La duchessa di Serpentina si innamora davvero del bellissimo
prigioniero e, mentre il marito è alla guerra, lo libera. È inutile
dire che Gibello subito vola al soccorso di Argogliosa, e con
l’aiuto dei suoi amici, il cavaliere Nero e il conte Vermiglio,
sconfigge l'esercito di Bravisse e uccide il duca di Serpentina.
Dopo la vittoria, Gibello, che non si ritiene sciolto dalla pri¬
gionia della duchessa e vuol serbare fede alla parola data, in¬
curante del pianto della bella Argogliosa, ritorna a Serpentina
(LXVI1I).
Intanto il re Tarsiano bandisce uua festa e vi invita la duchessa.
Ma ella è vedova e non può recarsi alla corte da sola; allora pensa
di condurre con sè, come gentiluomo di compagnia, il leale
Gibello. La regina di Bravisse, appena lo scorge, lo riconosce
per il figlio suo, sia per i lineamenti del viso, sia per il pallio
dorato; interroga la nutrice e ne ha la confessione die il bam¬
bino, destinato alla morte tanti anni prima, era stato risparmiato
(LXXVII1).
La notizia del riconoscimento si diffonde per la città e Tar¬
siano, furibondo, condanna a morte la moglie. Ma Gibello si
arma in difesa di lei e tutti i baroni e anche il principe, suo
fratello, si schierano accanto a lui ; e Tarsiano rimane abban-
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
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donato. Gibello si reca dal padre e lo convince dell' ingiustizia
della sua legge e della condanna inflitta a sua madre (LXXXV).
Intanto Argogliosa giunge a Bravisse con uno splendido corteo
di cavalieri e sposa, tra la letizia generale, il suo bello e prode
Gibello (LXXXVIII).
La duchessa di Serpentina cade morta a terra, uccisa da
Amore.
Questo grazioso racconto è congegnato, non senza abilità, su
due motivi fondamentali :
1° l’amore di un cavaliere per una principessa potente o
per una fata, contrastato dal destino attraverso a mille episodi
avventurosi: è la stessa leggenda del Bel Qherardino e della
Pulzella Gaia ;
2° il pregiudizio di un re, che crede adultere le donne che
dànno alla luce due gemelli.
11 primo dei due motivi è quello del gruppo di leggende che
mettono capo al lai di Lanval di Maria di Francia e al lai ano¬
nimo di Graelent; il secondo costituisce gran parte del lai di
Fraime , del quale questa è la trama. Vivevano in Brettagna
due cavalieri, amicissimi. Quando la moglie dell’uno dà alla luce
due gemelli, la sposa dell'altro si mette a ridere e al banchetto
del battesimo dichiara, con grande scandalo di tutti, che una
donna che partorisce due bimbi deve aver conosciuto due uo¬
mini. Ma nello stesso anno ella mette alla luce due bimbe. Piena
di vergogna, per celare l’obbrobrio, prende una delle bimbe, la
avvolge in un prezioso drappo, che poc'anzi il marito le aveva
recato in dono da Costantinopoli, le cinge il braccio con un
bracciale d’oro o la affida a una nutrice perchè l'abbandoni di
notte in un bosco. La nutrice depone la piccina tra i rami di
un frassino, che sorge accanto a un chiostro e, dopo aver mor¬
morato alcune preci, scompare tra le piante. La suora sacre¬
stana del monastero al mattino raccoglie la bambina e la porta
nel chiostro ; le monache dànno alla bambina il nome di
Fruirne (frassino), per ricordo del luogo dove l’avevano tro¬
vata. Dopo moltissime avventure Fraisne diventa l’amante del
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E. LEVI
signore di I)ol, Gurun, fugge dal convento e va a convivere nel
castello di lui. Passa qualche anno, e il cavaliere brettone vo¬
lendo dare marito alla figliuola Coldre, pensa proprio a Gurun.
L’umile Fraisne, soffocando i singhiozzi, prepara la casa, come
la celestiale Griselda boccaccesca, dirige i preparativi delle nozze
ed arriva persino ad abbandonare il suo unico tesoro, il drappo
e il bracciale, nella stanza nuziale, per festeggiare l’arrivo della
sposa. Ma la suocera di Gurun riconosce da quel drappo e da
quel bracciale che la donna che ella disprezza quale ramante
del fidanzato della sua figliuola, è proprio l'altra sua figlia ab¬
bandonata nel bosco ; e invece delle nozze tra Coldre e Gurun
vuole siano stipulate quelle tra Gurun e la bella e angelica
« Fraisne » (1).
Tra rantichissimo lai brettone e il cantare italiano la paren¬
tela è assai stretta. Lo svolgimento del racconto è identico; sol¬
tanto vengono rovesciate naturalmente le parti, nella scena delle
nozze, perchè mentre la dama brettone aveva avuto due figlie,
i gemelli della regina di Bravisse sono due maschi. Le due so¬
relle, Coldre e Fraisne, aspirano alle nozze col principe Gurun;
i due fratelli, Gibello e l’altro non nominato, si contendono per
poco tempo il cuore e la mano della bellissima principessa Ar-
gogliosa.
Un particolare, che può sfuggire durante la lettura del canto
di Gibello , merita di essere messo in evidenza: il drappo d’oro
che è il segno di riconoscimento dell'eroe. Esso vien ricordato
quasi a ogni passo, ma in tal modo che sembra che il poeta non
si sia reso conto nè della sua origine, nè del suo ufficio, nè del
suo destino in questa leggenda. Gibello viene « amantato in un
bel drappo d’oro » (V) e le nutrici, elette da Argogliosa, subito
pongon mano « a governarlo — e di quel drappo ad oro a
dismantarlo » (XI). Quando parte alla ricerca della sua gesta,
(1) Fraisne è il terzo dei XII Late di Maria di Francia. Mi valgo della
ediz. di K. Warncke, Halle, 1900, pp. 54-74.
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
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« Gibel elei drappo ad oro fece banda » (XXIV, 8), cioè — credo
— bandiera, issandolo come stendardo sulla lancia;,infatti nel
duello col duca di Serpentina (LXV):
un sì gran colpo Gibel gli donòe
morto l’abbatte sotto sua bandiera,
e poi entrando come vincitore a Bravisse (LXXVI):
sotto sua insegna il nobile Gibello
per la città ogni di cavalcava.
Di questa insegna, di cui « è amantato » (LXXVII), egli poi
rende ragione alla madre; e ne segue il riconoscimento. Il
drappo d'oro di Gibello è il pallio di Fraisne, che ella porta ac¬
canto a sè, nel bosco e nella reggia, e, quasi a simboleggiare la
sua sublime e crudele rinuncia, poi abbandona sul letto nuziale
del suo amante (v. 410-460).
Il lai di Fraisne è uno dei più affascinanti per la accorata
mestizia che lo circonfonde e la profonda ed umana semplicità
degli affetti. Fin da tempi assai antichi ebbe traduzioni ed imi¬
tazioni in tutta l’Europa: in Inghilterra, nel grazioso Lay le
Freme del principio del Trecento (1), in Francia nel romanzo
di Galerent corate de Bretagne (2); in Italia ebbe un’eco nella
novella tragica ed eroica che chiude il Decamerone, in Gri¬
selda (3). La superstizione che i gemelli siano frutto d’un adul¬
ti) Pubbl. tra le Aticient metrical romances, ed. by Henkv Weber, Edin¬
burgh, 1810, voi. I, pp. 357 e segg., poi da H. Varnhagen, in Anglia, III, 415;
cfr. Zcpitza, Zum Lay le Freine, in Englische Studien, voi. X [1886],
pp. 41-48. Purtroppo questo grazioso poemetto è frammentario.
(2) Le roman de Galerent comte de Bretagne par le trouvère Rejìai’t
p. p. Anatole Boucherie, Paris, 1888; cfr. A. Mussapia, Appunti sul Roman
de Galerent, nella Romania, XVII, 439.
(3) Cfr. L. Savorjni, La leggenda di Griselda, Teramo, 1901 ; A. De Gc-
BERNATig, De Sacountala à Griselda, Roma, 1905; F. X. Wannekmachek, Die
Griseìdis-Sage auf der lberischen Halbtnsel, Strassburg i. E., 1894; cfr.
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K. LITI
terio, la quale forma il dato iniziale del lai di Maria di Francia e
del cantare di Gibello , fu pei* lungo tempo diffusa in mezzo al
popolo e lo è ancora, in alcune regioni (1). Essa si ritrova in
moltissime leggende medievali e in moltissimi racconti popolari;
e fu con arditezza veramente mirabile e straordinaria portata
sulle scene da Lope de Voga nella commedia Los porcele# de
Murcia (2). Il motivo è sempre costante; una dama deride una
mendicante che reca con sà due gemelli e dice che il parto ge¬
mino è indizio di adulterio. Poco dopo ella mette alla luce due,
tre, quattro, persino sette figli, o addirittura, come in una leg¬
genda raccolta nella cronaca di Hermann Korner (1300), 364 figli,
piccini come granelli, tam exiguos sicut polypos (3).
Una notevole somiglianza col cantare di Gibello ha, tra tutte
le innumerevoli versioni, quella della romanza castigliana di
Espinolo (Il biancospino). Una regina di Francia pubblica una
legge che la madre di due gemelli, come convinta di adulterio,
debba essere senz’altro uccisa. Poco dopo ella stessa dà alla luce
due bambini e per sottrarsi alla sua legge crudele, fa gettare
l’uno dei gemelli nel mare, in una cassetta che contiene qualche
ninnolo d’oro (= il drappo d’oro di Gibello ). La cassetta viene
gettata su una spiaggia, in un cespuglio di biancospino, e viene
raccolta da alcuni marinai, i quali ne traggono il piccino e lo
portano al Sultano di Siria. Il bambino cresce prode e valoroso
Stiefel, nel Literaturblatt fur german. unti roman. Philologie, XXI (1895),
p. 415 e segg.; R. Schvstkr, Griseldis in der fratizòeischen Literatur, Tu-
bingen, 1908.
(1) Molte curiosissime testimonianze sono state raccolte da W. Hertz, Spiei¬
mo nnsbuch, Novéllen in Verseti aus dem XII und XIII Jahrh.*, Berlin,
1912, p. 401 e segg.
(2) Cfr. Lope de Vbga, Obras publieadas por la B. A endemia espano/a.
voi. XI (Madrid, 1900), p. 543 e segg. Sono preziose le osservazioni prelimi¬
nari di M. Menéxdez y Pelavo, t ’b., p. oli e segg.
(3) Cfr. R. KOhler, Anmerkungen zu Le Fraisne, nella 2* edizione del
Warncke, p. lxxxvii e sgg.
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
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e viene adottato quale figlio del sovrano, come Gibello alla corte
della principessa Argogliosa (1).
La coincidenza di alcuni particolari della storia di Gibello e
della storia spagnuola di Biancospino parrebbe indicare senza
altro la conclusione di questa ricerca: la romanza spagnuola e
il cantaro italiano riposano sopra un comune motivo della leg¬
genda, diffuso per via di tradizioni orali. Nel cantare italiano si
avrebbe inoltre un’eco vivacissima del lai di Fraisne nel par¬
ticolare del pallio d'oro, che è il segno di riconoscimento tanto
per Gibello quanto pel Frassino. Ma lo stesso autore del can¬
tare ci avverte che di una conclusione cosi semplice bisogna
diffidare; in più luoghi egli accenna non già ad una tradizione
orale, ma a una leggenda scritta come a fonte precisa del poe¬
metto. « Secondo la storia », dice una volta (XL, 1), e altrove:
« nel libro m’informo » (LIX, 8). Che quel libro fosse francese
mi pare si debba dedurre dai molti francesismi che sono disse¬
minati nel cantare, come bamaggio (LX, 1) e lanieri (a. fr.
lainier = pigro), XXX, 5, ed anche dal nome della principessa
buona, Argogliosa, che è uguale a quello dell’eroina del ro¬
manzo di Blancandin et d’Orgueilleuse e a quello della donna
amata dal cavaliere Orgulleus de la Roche nel romanzo del
G't'al di Cristiano di Troyes. E in realtà moltissimi romanzi
medievali francesi svolgono il motivo del figlio abbandonato per
la legge che condanna come adultera la madre di due gemelli.
Nel poema Le chevalier au Cygne (2) Beatrice, moglie del re
Oriante de l’Ile-fort, vedendo una donna che reca al battesimo
(1) F. Wolf e C. Hofmann, Primavera y ftor de romance», voi. II, p. 77
[n. CLIT] ; Romaticero generai ó Collecion de romances castellano8 recog.
p. D. Augusti* Dcran (Bibl. de aut. espanoles, voi. X), Madrid, 1854, t. I,
p. 177 [n. CCCXXIII]; e più correttamente da M. Menéndez y Pelayo nel-
llntrod. alle Obras de Lope de Vega cit., voi. XI, p. clix.
(2) Le chevalier au Cygne et Godefroi de BouiTlon, poème historique,
p. p. le Baron de Reiffenberg (Collection des chroniques belges inèdite 8 , XI),
Bruxelles, 1846-1859. Sullo sviluppo della leggenda, cfr. G. Paris, in Romania,
XIX, 314 e sgg.
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K. LEVI
(lue figliuoli, dice che ella non può averli concepiti « s’elle n’a
à deux liomines carnei habitement ». Ma poco dopo ella stessa dà
alla luce sette figli, sei maschi e una femmina. La medesima
storia è narrata con alcune varianti nell'altro poema più antico
del cosidetto « ciclo della crociata », la Chanson dii chevalier
au Cygne et de Oodefroi de Bouillon (1), e nella novella la¬
tina « de milite de la cygne » e nella romanza inglese, che ne
derivano. Nel romanzo (leU'imperatore Ottaviano, la madre di lui
si rivolge alla nuora Fiorimonda, che ha dato alla luce due ge¬
melli ed esprime il dubbio « que une famme peust avoir | Deus
enfans ensemble a un lit | S’a deus hommes n'a son delit » (2).
Qualcosa di simile s’ha in alcune versioni italiane dell’epopea
francese, nel Libro di Fioravante e nei Reali di Francia.
Andrea da Barberino racconta ( Reali , c. XLII) come una volta
fosse giunta alla corte di Fioravante re di Francia « una povera
« donna con due figliuoli in braccio amendue in fascia ». Druso-
lina, moglie del re, disse: E’ non può essere che d'uno uomo
solo nasca a uno portalo due figliuoli. Fioravante la rimpro¬
vera dicendo che « a Dio non è nulla impossibile; per vero la
« femmina secondo natura può portare sette figliuoli a uno por-
« tato, ma non più ». Nello stesso anno Drusolina « partorì due
« figliuoli maschi molto belli » e la suocera con uno strattagemma
pensò di far morire lei e i bambini (3). Ma quello che segue
(1) 1m chanson dii chevalier au Cygne et de Godefroy de Bouillon,
p. p. C. Hippeau, Paris, 1874-7. Cfr. K. Nyrop, Storia dell'epopea francese
nel Medioevo, trad. da E. Gorra, Torino, 1886, p. 220 e segg. ; W. MCller,
Die Suge von Schwanritter, in Pfeiffer’s, Germania, voi. I (1856), p. 418;
La naissance du chevalier au cygne ott les enfants changés en cygne, french
poem of thè XII th centory pubi, by H. A. Ton», Baltimore, 1889; W. Klein-
schmidt, Dos Vei-hdltnis des Badouin de Sebourc zu dem Chevalier au cygne,
Marco Polo, Bratulan, Barlaam und den Fabliaux, Gottingen, 1909.
(2) Octarian altfr. Roman, eco. hgg. von K. VollmOller, Heilbronn, 1883
\Altfranz. Bibliothelc, III]; cfr. Romania, XI, 1882, p. 609; Floovant und
Iulian, nebst einein Anhang Uber die Oktaviansage v. F. Settegast,
1906; P. Raj.na, I Reali di Francia, pp. 72 e sgg.
(3) A. da Barberino, 1 Realidi Francia, testo critico per cura di G. Vau-
delli, Bologna, 1900, voi. II, p. 176 e segg.
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UR B ANÀ-CH AM PAfGN—
I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
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non ci interessa. Il medesimo racconto si ritrova nel libro pa¬
rallelo ai Reali , le Storie di Fioravante (1), che il Rajna giu¬
dica scritto tra il 1315 e il 1340 (2), cioè cinquant’anni avanti la
compilazione di Andrea da Barberino: le varianti tra i due testi
sono pressoché insignificanti. Le storie di Fioravante sono con¬
servate soltanto in due manoscritti, e dei due l’uno è precisa-
mente quello che contiene Gibello (3). Sarà casuale il raccosta¬
melo dei due testi della medesima leggenda? E poi la somiglianza,
anche nelle stesse parole, di alcuni tratti di Qibello col testo dei
Reali invita alla riflessione:
qual due figliuòli partoriva in uno colpo.
{Gib., m, 4).
Come non fu possibile al Signore
Di fare Adamo...
Così non gli è impossibile di fare
Duo figliuoli in un'ora ingenerare.
{Gib., LXXXII).
e partorì questi due fanciulli a
uno corpo.
{Reali, 177).
0 Drusolina, non dire così, perchè
a Dio non è nulla impossibile...
{Reali).
La rassomiglianza è assai minore rispetto alla Storia di Fio¬
ravante , sicché io credo che, se occorre ammettere qualche rap¬
porto di dipendenza, il testo derivato dovrebbe essere quello dei
Reali e quello originario Qibello.
Questa conclusione è assai importante rispetto alla data del
cantare , perché ci fornisce un termine « ad quem » negli anni
nei quali si può presumere siano stati composti i Reali’, cioè
tra il 1390 e il 1400 (4). Il racconto delle storie di Fioravante
e dei Reali ha nei particolari tali somiglianze col lai di Fratine
(1) P. Rajna, Ricerche intorno ai Reali di Francia, Bologna, 1872, voi. I,
p. 445 e segg.
(2) P. Rajna, Op. cit., p. 33
(3) 1 - cod. Mglb. IL 23; 2 - cod. Laurenz. Palat. 119; cfr. P. Rajna,
Op. cit., p. vili.
(4) Andrea da Barberino nacque circa il 1370 e morì nel 1431.
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B. LEVI
che il Rajna immagina che messer Andrea Barberino « assai
« dotto in fatto di letteratura romanzesca, abbia avuto presente
« il lai di Maria » (i). Ma a tutte le coincidenze d’argomento e
di parola tra la storia di Fraisne e quella di Drusolina parte-
cipa anche il cantare di Gibello , il quale per di più si riattacca
al lai del frassino per tutto lo svolgimento della leggenda e non
in un solo episodio staccato, e d’altra parte in più luoghi espli¬
citamente si rivela discendente da un testo francese. Per tutto
ciò escludo fermamente che Andrea da Barberino attingesse
direttamente dal lai e credo che ad esso si riallacci proprio
attraverso il cantare di Gibello.
La famiglia di questa leggenda ha dunque per capostipite il
lai di Maria di Francia. Tra Fraisne e Gibello si debbono col¬
locare una o più generazioni intermedie, dalle quali procedono
da una parte il cantare italiano di Gibello e dall’altra la romanza
spagnuola del Biancospino. L’episodio di Drusolina nelle Stoi'ie
di Fioravante e nei Reali mescola insieme la tradizione che
in Italia è rappresentata da Gibello con la vecchia tradizione
medievale di Fiorimonda e deH’imperatore Ottaviano (2).
Lo studio intorno alla leggenda ci ha di per sè stesso condotto
a riconoscere che il cantare di Gibello è anteriore al 1390-1400.
Ma l’esame un poco più approfondito del poema consente di fis¬
ti) P. Rajna, Op. cit., p. 82.
(2) Insomma si avrebbe:
Fraisne
I
Galerent
I
Ottaviano
/
/
\/
Fioravante
e Reali di Francia
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
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sare la data della sua composizione anche più addietro. In mol¬
tissimi tratti Qibello ricorda assai da vicino il Bel Gherardino
e la Pulzella Gaia. Gibello è gettato in carcere, appena giunto
nella città di Serpentina, e la duchessa se ne invaghisce e ar¬
ditamente lo richiede d’amore, approfittando dell’assenza del
«
duca. Da lei Gibello apprende che Argogliosa è stretta d’assedio
nella rocca di Genutrisse e ottiene di accorrere in suo aiuto»
promettendo di uccidere il vecchio duca. Compiuta l’impresa, egli
ritorna a Serpertina e si rende di nuovo prigioniero (XL-LXIX).
È sempre il « motivo » del Bel Gherardino : Gherardino è chiuso
in prigione e la Sultana di Alessandria se ne innamora. Intanto
il Sultano parte per andare al torneo bandito dalla Fata Bianca
e Gherardino ottiene dalla Sultana di accorrervi lui pure con la
promessa di toglierle di mezzo il marito, che non è più buono
a nulla (B. Gher., XXIX).
Poi gli diceva: Amor, po’ che tu vuoi,
a Gienutrisse andar, chieggioti un
[dono,
che ’l duca mio uccidi se tu puoi.
(Gibello, XLIX).
- Ma ben che la tua andata mi sia sconcio,
io pur ti donerò arine e cavallo;
ma tu mi giurerai, se Dio ti vaglia,
d’uccidere il soldan nella battaglia.
(Gherardino, XXVIII).
La scena del parto della regina di Bravisse (III-IV) ricorda
molto da vicino, anche nelle parole, la scena del parto della re¬
gina d’Oriente (cant. II, ott. 26-27).
Nel giro della frase si sente la medesima mano che ha scritto
gli altri cantari che sono con certezza del Trecento; anzi uno
dei versi (I, 26, 2) si ritrova tal quale nella Pulzella Gaia
(II, 62, 2).
L’autore di Gibello non era certo un poeta colto; basta dare
un’occhiata al suo latino per persuadercene (I, VI, 8):
— Ave
Maria, grazia piena, domina# tecon.
Questo è il latino della donna Bisodia del Boccaccio e del¬
l’amenissimo verbu/n caro della Regina d'Oriente. Molte volte i
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K. LEVI
versi zoppicano e non si reggono che per la divisione delle sillabe
concessa alla poesia popolare (1). Nove volte si ha l'assonanza
invece della rima (2); due volte s’ha la ripetizione del medesimo
verso a pochissima distanza (LI, 2; LXI, 7). Sono innumerevoli
le zeppe, con le quali quell’artefice maldestro e malsicuro s’in¬
gegna di riempire i vuoti della sua flaccida musa : per quel che
da ciascun per vero V sento (XVII, 4), di ciò non vi mento
(XVII, 6), al ver dire (XXXII, 3), in veritade (XXXIX, 3),
senza difetto (XL, 4), secondo la storia (XLI, 2), per quel che
io sento (LIX, 8).
Nonostante questa ingenuità popolaresca, il cantare di Gi-
bello riesce sempre interessante e in alcuni tratti è vivo, forte
e drammatico come poche altre scritture del Trecento ed ha
accenti di profonda poesia. Oh, quale fremito di umana verità
ha il grido della madre al riconoscere il figlio perduto!
Per te arsa or sarò io,
ma allegra, figliuol mio, io sì morraggio!
XI.
Gismirante.
Col cantare di Gismirante s’inizia nel mio Fiore di leg¬
gende la serie dei cantari di Antonio Pucci (| 1388), che com¬
prende i cant. VII, Vili, IX e X. Al Pucci sono stati attribuiti
anche i cantari di Pulzella Gaia (II), del Bel Gherardino (I)
(1) La dialefe s’ha generalmente dopo nna parola tronca, coinè città (VI, 4;
LXV, 8; LXXIV, 2), t«ì (LXIT, 4), ni (LXIV, 3) e qui si può giustificare.
Meno legittimi mi sembrano questi casi: andava - isgomberar , LXJI, 7;
pruova - un, LXIV, 5, ecc.
(2) Ott. II, Bravisse: esse ; III, gionse: corpo ; III, fece: meretrice ; XXI,
garzone: potroe ; LV, aspro: mastro ; LXVIII, mercede: mene\ LXXIII, Tar¬
siano: entraro ; LXXVIII, sconfiggeremmo: francheremo ; LXXXII, dolore :
portone.
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
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e della Donna del Vergiti (V), per i caratteri artistici di quei
componimenti e per la somiglianza nella verseggiatura e nel-
rarchitettura dell’azione con questi che sono realmente puc-
t
ciani. E inutile che io avverta che i giudizi sull’arte, essendo
soggettivi e variabili, non possono offrire affidamenti sicuri e
che le identificazioni, che se ne desumono, sono tanto più in¬
certe in questa letteratura dei cantari , che per essere popola¬
reggiante è poverissima di elementi individuali. D’altra parte
noi conosciamo ancora troppo imperfettamente la lingua popo¬
lare e la lingua poetica del secolo XIV per poter distinguere ciò
che era pretta creazione fantastica individuale e ciò che invece
veniva alla luce dell’arte dal fondo oscuro del parlare quotidiano.
I due cantari di Gismirante sono certamente del Pucci perchè
il secondo reca la clausola finale col nome dell’autore (11,61):
al vostro onor questo fe' Antonio Pucci. Il cantare di Bruto
(XII) deve pure ritenersi opera certa del Pucci, perchè è com¬
preso nel codice Kirkup, che è una raccolta del secolo XIV, nella
quale non sono comprese che le composizioni del banditore fio¬
rentino e null’altro aH'infuori di esse. Il cantare di Mad. Lio-
nessa (IX) è anch’esso compiuto da un verso col nome dell’au¬
tore: Antonio Pucci il fece al vostro onore , come quello di
Gismirante. La medesima formula, che costituiva come la firma
dell’artista, è in ciascuno dei quattro cantari della Regina d’O-
rlente : Antonio Pucci al vostro onor Vha fatto (I, 50); Al
vostro onore Antonio fe’ ’l cantare (II, 50); Antonio al rostro
onor finito ha il ferzo (III, 50); Antonio Pucci il fece al
vostro onore (IV, 44).
Quest’ultimo verso è identico all’ottavo
della stanza XLIX di Mad. Lionessa.
La leggenda di Gismirante è delle più strane ed originali.
Nella corte di re Artù non si poteva toccar cibo se non veni¬
vano « fresche novelle » di fuori; da due giorni non capitava
avvenimento alcuno e la corte non poteva mangiare, quando
Gismirante chiese di partire per cercare ventura. Egli infatti
trova una fata, la quale gli fornisce notizie di uno strano regno,
dond’ella viene. La principessa del regno è bellissima, e la vi-
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E. LEVI
gilia di S. Martino se ne va, tutta nuda, alla chiesa; se qualcuno,
spinto dalla curiosità, getta su di lei uno sguardo indiscreto,
viene subito condannato a morte. La fata porge a Gismirante
una scatoletta che contiene un capello, lucente come oro, della
principessa. Il cavaliere reca ad Artù il prezioso capello e poi
parte per guadagnarsi l'amore della principessa lontana; per via
libera un grifone dalle insidie d'un drago, dà da mangiare a
un'aquila affamata e scioglie uno sparviero che s’era impigliato
in una siepe. La vigilia di S. Martino egli giunge su un destriero,
regalatogli dalla Fata, nella città della principessa, entra nella
chiesa e, per meglio vedere, si toglie la barbuta. La principessa,
tutta nuda, in compagnia d’un drago e d’un leone, s’inginocchia
davanti all’altare; a un tratto scorge il cavaliere. Egli ormai
dispera della vita, ma ella sorridendo gli dice: « Io ti vo’ per
« amante... Però se mi vorrai al tuo dimino, Verrai per me ista-
« notte a mattutino ». Calata la notte, Gismirante si toglie in
sella la principessa e fugge. Ma essi sono presto scoperti e in¬
seguiti da più di mille baroni della corte; giungono a un fiume e
la fanciulla con una sua verghetta prodigiosa lo fa seccare come
pietra e lo varca e poi con un altro tocco vi fa riscaturire le
acque. Gismirante vince gli inseguitori e poi, stanco dalla lunga
lotta, si mette a dormire tenendo la testa nel grembo della sua
bella fanciulla. Ma, mentre egli dorme, capita l’uomo selvaggio
che colloca sotto alla testa del dormiente una pietra e rapisce la
principessa. Disperato, Gismirante ritorna dalla Fata, la quale lo
avverte che non si può vincere l’uomo selvaggio se non si sappia
dove egli ha il cuore. Gismirante va sotto la torre dove l'uomo
selvaggio ha relegato la principessa ed esorta l’amante a strap¬
pare al mostro il suo segreto; ed ella infatti con fine accorgimento
viene a sapere che il cuore è collocato nel corpo del « porco tron-
cascino ». Se il porco venisse ucciso, il cuore passerebbe nel
corpo di una lepre, e se venisse uccisa anche questa, nel corpo
di un passerotto. Gismirante va a Roma, trova tutta la città in
lutto perchè il figlio dell’imperatore deve essere dato in pasto
e in tributo al porco troncascino, ottiene dall’imperatore delle
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-tìR^BAN A-C RAMPAI G N -=
I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
95
armi favolosamente forti e pesanti, un cavallo indomito e sel¬
vaggio e si mette alla ricerca del cinghiale. Dopo una lunga
lotta sanguinosa lo uccide e sta per squartarlo, quando dalle
carni di lui esce una lepre. Ma l’aquila, che Gismirante avea
disfamata, si precipita sulla lepre o la reca negli artigli al ca¬
valiere; egli la uccide ed ecco dalla bocca se n’esce un passe¬
rotto. Lo sparviero allora si lancia sul passerotto e lo porge a
Gismirante, il quale lega la sua preda all’arcione e ritorna a
Roma e poi al castello dell’uomo selvaggio. Ma egli non può uc¬
cidere il passerotto e insieme, per naturale conseguenza, l’uomo
selvaggio, se prima questi non rivela alla sua donna il segreto
dell’entrata e dell’uscita dal castello. Il moribondo dà alla prin¬
cipessa l’anello, dove è collocato quel segreto, e allora Gismi-
ranto tira il collo al passerotto, e l’uomo selvaggio cade morto
sul suo letto. Aperte le porte del castello, Gismirante libera
43 donzelle e con esse e con la principessa fa ritorno alla corte
di re Artù.
Questa leggenda è molto singolare; per la ricchezza dei par¬
ticolari fiabeschi essa rappresenta forse il più antico e importante
antecedente delle Piacevoli notti dello Straparola e segna una
data memorabile nella nostra letteratura mitica. Il Pucci stesso
era ben convinto dell’importanza di questa sua opera e ne parla
con un entusiasmo e con una compiacenza evidenti:
E prego voi, signori e buona gente,
che con affetto mi dobbiate udire;
io vi dirò d’una storia novella,
forse che mai non l’udiste sì bella.
La novella certamente non ò stata inventata dal Pucci, prima
di tutto perchè queste fiabe non si inventano mai, e poi perchè
il poeta stesso ci avverte che egli ne ha tratto l’argomento da
un libro, da un certo libro che egli andava assiduamente sfo¬
gliando per trarne piacevoli « novità » (1). Del resto la facilità
(1 ) Cant. II, ott. 2, vv. 4-6.
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96
E. LEVI
stessa con la quale il Pucci veniva componendo questi cantari
è indizio ch’egli piuttosto che comporli faticosamente da molte
0
fonti, li traeva alla lesta, tali e quali, da uno o più libri che
egli si limitava a tradurre e a verseggiare. L’esempio del Bi'uto
(XII), che è tradotto alla lettera da un capitolo di Andrea Cap¬
pellano, è eloquente.
Ma quale fosse il libro che il Pucci aveva sotto gli occhi du¬
rante la composizione di Gismirante, non saprei indicare con
precisione. La leggenda che fornisce argomento al primo dei due
cantari — quella della principessa che cavalca nuda attraverso la
città e vuole siano condannati a morte i curiosi che osano lan¬
ciarle solo uno sguardo indiscreto e impudico — è una delle più
celebri, perchè fu cantata dal Tennyson (1) e fu recentemente
portata sulle scene in un’opera del Mascagni, ne\\'Isabeau, e in
un dramma di Maeterlinck, Monna Vanna. Secondo l’antichis¬
sima leggenda sassone raccolta dal Tennyson, Leofric, uno dei
più cospicui personaggi del tempo di Edoardo il confessore (2),
avrebbe una volta imposto alla città di Coventry infiniti gra¬
vami e balzelli. La bella e pietosa moglie di lui, Godiva, per
indurlo a cancellare quei crudeli decreti, scherzando si sarebbe
offerta di cavalcare nuda attraverso la città pure di redimerla,
e LeotTric avrebbe accettato l’oflerta. E allora Godiva. vestita
dei suoi soli capelli, compì la mirabile cavalcata. 11 fatto è rac¬
contato in moltissimi testi antichi e cantato in alcune ballate
popolari del sec. XVII e XVIII. In queste si fa anche il nome
di un ingenuo curioso, il quale, come Gismirante, non avrebbe
saputo resistere alla tentazione di ammirare quelle regali nu¬
dità: « peeping Tom ». Ogni tre anni, anche adesso, si compie
a Coventry una cavalcata simbolica per commemorare l'eroica
impudicizia di lady Godiva (3).
(1) iAtdy Godiva, in The IForLuof Alfred Tknnysox, London, 1894, p. 103.
(2) Cfr. T. Hoimjkin, The tìist. of England from thè euri test times to thè
Norman conqnest, London, 1906, p. 447.
(3) Nella Biblioteca civica di Coventry vi è poi una raccolta di libri e di
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1 CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
97
Della cavalcata leggendaria ci parlano molte cronache del se¬
colo XIV. Ecco il racconto dei Flores historiarum del monaco
Matteo di Westminster (i).
Haec autom comitissa [= Godiva] religiosa villani Coventrensem a gravi
servitute ac turpi liberare affectans, saepius comitem virum suum magni»
praecibus rogavit ut Sanctae Trinitatis, Sanctaeque Dei Genitrici» intuitu
villani a praedicta absolveret servitute. Cuiuque Comes illam increparet quoti
rem sibi dampnosam inaniter postularet, prohibuit constanter ne ipsam super
hoc de caetero conveniret. Illa e contrario, pertinacia muliebri ducta, virum
indesinenter de petitione praemissa exasperans, tale responsum ertorsit ab eo:
— Ascende, inquit, equum tuum nuda et transi per mercatum villae ab initio
usque ad finem, populo congregato et, cum redieris, quod postula.» impetrabis.
Cui comitissa respondens ait: — Et si hoc ùlcere voluero, licentiam mihi
dabis? — Ad quam Comes: Dabo — inquit. Tunc Godyva comitissa, Deo
dilecta, die quadam, ut pracdictum est, nuda equum ascendens, crines capiti»
et tricas dissolvens, corpus suum totum, praeter crura candissima, inde velavit
et, itinere completo, a nemine visa, ad virum gaudens hoc prò miraculo ha-
bentem, reversa est. Comes vero Leofricus, Coventrensem a praefata servitute
liberans civitatem, cartam suam inde factam sigilli sui munimine roboravit.
La medesima narrazione è nel Chronicon (ab a. 588 usque ad
a. 1198) di Giovanni Brompton, che scriveva nel Quattrocento (2),
nel Polychronicon (3) del monaco Ranulfo Higden (f 1363) e
nella Compilano de eventibus Angliae di Enrico Kuigton, ca¬
nonico di Leycester (f 1395):
scritture riguardanti la cavalcata di Godiva ; cfr. il Dictiotiary of Nat. Bio-
graphy, London, 1908, voi. Vili, pp. 36-88 [Godiva]. La ballata scozzese
Leoffricus thè n<Me evie si legge in Bishop Percy’s Folio Manuscript ed.
by J. W. Hales and F. J. Fcrnivall in 3 voi. vrith a supplementary voi. of
€ Loose and Humorous Songs *, 1867-8. Su questa e sulle altre raccolte di
canti popolari inglesi, cfr. A Brandi., Englische Volkspoesie in H. Pacl’h
Grundriss der Germ. Philól., Il, I, pp. 837 e seg.
(1) Matthaei Westmonacensis, Flores historiarum usque ad a. 1307, nei
Rerum Britann. M. Aevi Script., n° XCV, London, 1890, voi. I, p. 576.
(2) Potthast, Bibl. hist. M. Aevi, p. 657.
(3) Rerum Brìi. M. Aevi Scriptores, n° XLI, voi. VII (1879), p. 198.
Giornale storico — Sappi. n u IO. 7
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K. LIVI
Atl jugem quoque in stantia») uxoris suae urbem suam Coventrensem ab
«unni tolneto praetcrquam de equis liberali) fecit ; ad quod impetranduni uxor
eius comitiva Godgiva, quodani mane, per medium urbis, nuda sed comis
tecta equitavit (1).
Che il Pucci abbia conosciuto queste cronache inglesi non è
punto credibile, e neanche si può supporre che egli abbia tratto
ricordo di Godiva (idilli istoria ecclesiastica di Orderico Vi¬
tale, perchè ivi è esaltata la pietà di « Godiova », ina non è nep¬
pure menzionata l'epica e mirabile cavalcata di Coventry (2).
Molto meno arduo è lo studio degli altri elementi leggendari,
che sono connessi con la prodigiosa cavalcata della Principessa,
nel bizzarro cantare di Gismirante. Il capello d'oro perduto
dalla principessa lontana e recato dalla fata a Gismirante ri¬
corda subito uno dei più poetici episodi della leggenda di Tri¬
stano. Re Marco, cedendo alle istanze dei suoi baroni, decide
di scegliersi una sposa. Una rondinella, volando in Cornovaglia
dall’ Irlanda, lascia cadere nella reggia un lungo capello di fan¬
ciulla. Allora re Marco annuncia che sposerà la donna, dalla
cui chioma è volato via l’aureo capello. Tristano, appena lo vede,
riconosce nell’aureo filo un capello di Isolda e parte alla ricerca
della bella lontana (3). L’aiuto prestato a Gismirante dai tre ani¬
mali riconoscenti, l’aquila, il grifone e lo sparviero, è uno dei
luoghi comuni del repertorio della fantasia popolare. Un riscontro
evidente fu già additato nel Pehtamerone del Basile (III, 4). Nella
sua compiutezza, l’ordito intero della seconda parte del cantare di
(1) Rerum Brit. M. Aevi Script., n. XCU, voi. I, pp. 43-44. Il racconto di
Banulfo Higden è identico anche nelle parole.
(2) Ordericj Vitali», Ecclesiasticae historiae, 1. IV, in Historiae Nor¬
man norutn scriplores antiqui, ed. A. Duchesnius, Parigi, 1619, voi. Il, p. 511
e in Migne, Patrologia latina, voi. CLXXXVIII, col. 314.
(3) Così raccontano Thomas, Eilhard di Oberg e il poemetto della Nolte
Tristan ; cfr. J. Bédier, Le roman de Tristan par Thomas, Paris, 1902
(S. A. T. F.), voi. I, p. 110; voi. II, p. 214 ; W. Golthkr, Tristan und Isolde
in den Dichtungen des M. A. und der Neuen Zeit, Leipzig, 1907, pa¬
gine 19 e segg.
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I CANTARI LKGGKNDARI ITALIANI
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Gismirante si trova, identico persino nei particolari più mi¬
nuti nelle novelle greche ed albanesi. L’eroe, il « forte Giovanni »
conquista una fanciulla, la quale poi gli viene rapita da un vecchio
mago. « La fanciulla dimanda al rapitore dove sta rinchiusa la sua
« forza e quegli le indica un'aia sopra la montagna, dove all’ora
« del mezzodì ci viene un serpente con dieci teste, una molti-
« tudine d’altri serpenti lo seguono e lo circondano in cerchio;
« chi saltasse nell’aia sopra le teste dei serpenti senza toccarli,
« e abbattesse le dieci teste di quello di mezzo, mi darebbe la
« morte (1). In un'altra versione (di Witza) la forza del Dracos
« ù invece legata ad un porco, in cui si trovano due colombe.
« La versione di Syra infine si mostra la più completa di tutte:
« il nome del mostro rapitore è qui Tanzisis ; egli vorrebbe in-
« gannare la fanciulla additandole successivamente una scopa e
« una pentola come gli oggetti in cui sta la sua forza, come nel
« poema del Pucci egli le indica una colonna. In ambedue le
« versioni la sagace fanciulla gli si mostra credula, inginocchian-
« dosi innanzi i detti oggetti in atto di adorazione; il gigante,
« convinto del suo animo puro, è deciso a scoprirle la verità, e
« rivela come la sua forza risegga in un porco selvatico, in cui
« sono rinchiusi 3 uccelli cantanti.
« Nel racconto valacco il mistero della vita ù ancora più coin-
« plicato: in un lago distante vive un dragone; in quello sta
« rinchiuso il porco, nel porco una lepre, e poi successivamente
« una colomba ed un passero. Nella versione russa è una lepre,
« in cui sta rinchiusa un'anitra e in quella un uovo » (2).
Della leggenda si è voluto persino scoprire il valore simbo¬
lico e nel segreto dell’uomo selvaggio, che ha il cuore nel « porco
(1) J. H. Hahn, Griechiscfte und Albanemche Màrchen, Leipzig, 1864,
n. XLIV.
(2) A. Wesselofsky, Le tradì;ioni popolari nei poemi di Ant. Pucci, nel-
VAteneo italiano, Giornale di scienze, lettere ed arti, Firenze, 1866, voi. I,
pp. 224-229.
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URBANA-CHAMPAIGN
100
K. LEVI
« troncascino » e nel passero si vide la figurazione della « forza
« esuberante e creatrice della natura »!
Del particolare della verga ♦ che faccia seccare ogni gran
fiume... Po’ ritoccando lo fa ritornare » (I, ott. 32) il Wesselofsky
stesso ha additato un riscontro, anzi probabilmente la fonte in
un passo della versione del Libro d’amore di Andrea Cappel¬
lano, libro che era cosi famigliare al Pucci (1). Il re d’Amore
regala a Gualtieri una verga di cristallo che egli deve gettare
nel primo fiume che trova.
... sali’ nel mio cavallo proprio et in un momento ad un fiume pervenni,
nel qual pittai la cristallina verga, e senza impedimento tornai nel mio paese.
Anche in Gismirante (2) la fattura del verso è quella consueta
della poesia popolare: è frequentissima la dialefe, vi si nota una
rima equivoca (veritad’è — boutade , c. II, ott. LIV/v. 7-8) e
due volte vi appare l’assonanza in luogo della rima {drago:
dado , ott. XXVIII; tutti : dotti , ott. XL). Si ponga mente anche
alla compiacenza con la quale il poeta riprende a distanza frasi
e spunti simili, per aiutare la memoria ed incitarla: cant. II,
ott. XLI, 7:
Disse: — Il servigio non si perde mai;
tu mi pascesti e or merito n’arai.
Cant. II, ott. XLIV, v. i-5:
Dicendo: ...
... Il servigio e’ non è perduto
che a me, cavalier, far mi volesti.
(1) Cfr. il cap. XII, pp. 110 e sgg.
(2) GismiratUe è nel cod. riccard. 2873, c. 45-57 (sec. XV). Il ms. è de¬
scritto da P. Rajna, I cantari di Carduino giuntovi quello di Tristano e
Lancellotto quando combattettero al Petrone di Merlino, Bologna, 1873,
nella Scelta di curiosità letterarie, disp. CXXXV. Il cantare fu edito da
F. Corazzisi, Miscellanea di cose inedite o rare, Firenze, 1852, pp. 275-306.
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URBANA-CHAMPAK3N -
i cantasi leggendari italiani
XII.
Bruto di Brettagna.
Il cantare di Bruto è inedito. È il secondo del codice Kirkup,
dove vien subito dopo la Regina (l'Oriente. Quel celebre codice,
che prende il nome dal pittore inglese Seymour Kirkup, che
lo possedeva circa mezzo secolo fa nella sua biblioteca fioren¬
tina, dopo molte peregrinazioni oltre l’oceano, è recentemente
ritornato a Firenze, donato alla B. N. dal collegio di Wellesley.
Autografo del Pucci questo manoscritto non è certamente; lo
escludono il confronto con l’autografo della Fiorita di varie
storie (1362) e le numerose forme non toscane, che sono con¬
suete in questo testo. Tuttavia la costituzione stessa di questa
raccolta, tutta dedicata alle opere del Pucci, la precisione delle
didascalie, la conservazione dei versi finali con la soscrizione del¬
l’autore, clausole che invece sono soppresse o capricciosamente
mutate negli altri codici, tutti questi caratteri conferiscono al
codice Kirkup una grande importanza. La scrittura e la filigrana
inducono a credere che il libro sia stato messo insieme « fra il
« terzultimo e il penultimo decennio del sec. XIV » (t). Il can¬
tare di Bruto occupa cinque faccie a due colonne (c. 25-27); in
origine non aveva alcuna intitolazione, ma poi nel Quattrocento
(I) Cfr. S. Morpi'rgo, L'apografo delle rime di Antonio Pucci, donato
dal Collegio di Wellesley alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, nel
Bollettino delle pubblicazioni italiane ricevute per diritto di stampa, 1912,
n. CXXXIII; M. H. Jackson, Antonio Pucci’s poems in thè « codice Kir-
kupiano » of Wellesley college, nella Romania, XXXIX, 315-333. Nel voi.
Kirkup erano rilegati insieme due codici: un Filostrato (di cc. 48) che è
rimasto al Collegio di Wellesley e l’apografo Pucciano. Questo è mutilo; co¬
mincia a c. 17; e la mutilazione è antichissima perchè sull’alto della c. 17
due diverse mani del principio del secolo XV notarono : « Chomincia i chau-
tari della reina d’Oriente ».
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AN A-C H AM PAI G N
102
E. LEVI
due diverse mani vi sovrapposero la scritta : B/'uto di tìre-
tagnia. 11 cantare comprende 46 ottave ed ha questo argomento.
Bruto di Brettagna, barone senza pecca, è innamorato di una
dama, la quale gli ordina di andare nel castello di re Artù a
prendervi uno sparviero, due bracchi e il libro dove a lettere
d’oro sono scritte le regole d’amore. Per via incontra una fata
che gli suggerisce il modo di impadronirsi di quelle tre cose mi¬
racolose: 1° egli dovrà vantarsi di possedere l’amore della più
bella donna del mondo e provarlo con l’armi in pugno; 2* vin¬
cere due giganti, che son posti a guardia del guanto dello spar¬
viero. Oltre a questi preziosi avvertimenti la buona Fata regala
a Bruto un cavallo più veloce del vento. Il barone giunge a
un ponte gettato su un fiume largo e profondo, e difeso da un
gigante. Egli abbatte il gigante e si accinge a passare il ponte,
quando un altro gigante, che è sull’altra riva del fiume, inco¬
mincia a scrollare « si forte il ponte — che spesso sotto l’acqua
« il facìa andare ». Ma Bruto gli è subito addosso, lo afferra e
lo getta a capofitto nell’acqua.
Oltrepassato il fiume, il barone si trova di fronte a un castello
disabitato; scende dal cavallo, gli toglie il freno e lo conduce
accanto a un gran vaso d’argento pieno di biada, perchè si ri¬
stori. Ed egli si pone a sedere a uua mirabile mensa, imbandita
all’aperto; ma ecco che si spalanca con fragore una porta del
palazzo, e ne esce un gigante con un terribile randello in mano,
non di legno come i consueti, ma di metallo, e provoca e sfida
Bruto. Dopo una lunga lotte il cavaliere riesce ad abbattere
l’avversario e a spiccare il guanto fatato dal luogo ov’era celato.
Mentre egli compie questo atto, si odono dei lamenti miste¬
riosi (XXXV).
Bruto si rimette in via e giunge al palazzo di Artù che è
tutto d’argento all’esterno, il tetto d’argento e d’argento la fac-
ciata, e tutto d’oro all’interno, salvo le panche e le scale che
sono d’avorio. I dodici guardiani, vedendo il guanto fatato, la¬
sciano passare il cavaliere ; ed egli sale le scale e va nella sala
del trono a prosternarsi davanti al re Artù e a richiedere lo
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TICJKB AN A-CHA*MPAI GN ~ =
I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
103
sparviero, compiendo il vanto della sua donna. Uno dei baroni
10 sfida; ma Bruto lo abbatte e lo uccide (XLIII). Poi va alla
stanga, ne spicca lo sparviero, prende al guinzaglio i due bracchi,
toglie il libro delle regole d’amore, e si rimette in via (XLV).
Ritrova la fata, la ringrazia e riprende il cammino verso la
sua donna, facendo tacere la voce della riconoscenza che gli im¬
porrebbe di rimanere accanto alla sua bellissima protettrice.
Una compiuta redazione di questa curiosa leggenda si ha in
un capitolo [Vili] del secondo libro del De Amoi'e di Andrea
Cappellano. Quel capitolo ebbe una certa diffusione anche come
opera indipendente dal resto, certo per l’interesse che suscitava
11 romanzesco racconto (1), che esso contiene. Che il Pucci at¬
tinga proprio al libro di Andrea Cappellano e non alla diffusa
leggenda popolare, che probabilmente sta a fondamento del testo
latino, non può esservi dubbio; le corrispondenze sono cosi per¬
fette tra l’uno e l’altro racconto che molte volte vien fatto di pen¬
sare a una vera e propria versione letterale. Non siamo di fronte
ad uno dei soliti lontani « riscontri » ; abbiamo una fonte precisa
e immediata. La novella latina è molto lunga ; e perciò il Pucci
qua e là abbrevia e sunteggia, specialmente dove l’esposizione dei
fatti veniva sostituita dal dialogo tra questo e quel personaggio,
tutto risplendente di eleganze e di ricercatezze formali, che non
si potevano rendere in volgare senza cadere in violentissime
stonature. Ponendo la prosa latina di Andrea Cappellano di faccia
alle ottave del banditore fiorentino noi mettiamo di fronte due
secoli e due tipi opposti di cultura e di gusto: la raffinatezza
agghindata d’un retore medievale e la facilità sprezzante d'un
uomo di popolo del Trecento, la retorica di un clerico e la li¬
bertà fantasiosa d’un ciompo. Nè sempre il confronto giova ad
Andrea Cappellano, perchè con tutti quei ghirigori il suo la¬
tino è un brutto latino, e invece il cantare di Bruto è un bei¬
ti) Andreae Capellani, regis Francorum, De Amore, libri tres, recensuit
E. Trojel, Hanniae, 1892, pp. 295-309.
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~ OTTBÀNA-CHAMPAIGN
104
E. LEVI
lissimo zampillo di fresca poesia spontanea. Chi non ci crede,
lo legga.
Nella novella latina si narra di un certo cavaliere di Britanuia
che, errando per una selva, trova una fanciulla, la quale su¬
bito gli dice di conoscere lo scopo segreto delle sue peregri¬
nazioni, cioè la conquista dell’amore d’una bella donna di Bre¬
tagna, e il modo di conseguirlo. Questo dialogo è invece risolto
dal cantastorie in una breve introduzione narrativa (ott. 3-9) ;
poi i due testi procedono di pari passo:
[Brito mii.es],
Ait ergo puell&: — Accipi-
trcm, quei» quaeris, habere non
• posse*, nisi primitus in Arturi
palatio proelianiìo convincas quod
(iominae gaudes pulchrioris amore
qnam eoruin aliquis, qui in curia
demorantur Arturi ; palatium vero
intrari non posses, nisi primo cu-
stodibus chirothecam demonstrares
acci pi tris.
Sed chirothecam non est ha¬
bere possibile, nisi contra duos mi¬
lite» pugnando fortissimo» in du-
plicis pugnae agone obtineas.
Cui Brito respondit : — Co-
gnosco, me in hoc labore non posse
proticere, nisi mihi vestrae manus
auxilia porrigatis. Ideoque me re¬
stio dominatui volo subiicere, sup¬
plici a vobis orationis aftatu de-
poscens, ut vestra in hoc facto mihi
iuvamina porrigatis, et ut de ve-
Brito di Bretagna.
X.
Ed ella disse : ...
Sappi che quel tu brami cotanto
in nulla guisa acquistar non potrai
se primamente tu non ti da’ vanto
d'avere amor di bella donna, s’hai,
più ch’alcun altro cavalier che truovi,
e per battaglia poi convien che ’1 pruovi.
XI.
Ma nel palazzo non potrà' entrare
se ’l guanto de l'uccel non hai primieri,
e tu quel guanto non potrà’ ’cquistare
se non combatti con duo cavalieri,
i quali son posti ’l guanto guardare,
e son gioganti molti arditi e fieri... —.
XII.
E Bruto disse: — Dama, i’ non potrei
donna nomar di tanta appariscenza.
Se non ti fosse grave, ben vorrei
che tu di te mi dessi licenza.
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„UNJVERSITY OF ILUNOJ^
- ÙRBÀNA-CHAMPÀIGN
I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
105
atro milii concedati assensu qua-
tenus vestrae dominationis intuitu
licenter valeain amorem inihi do-
ininae pulchriori adscribere —.
Sic tandem ei osculum porrexit E con fermezza d’amore il baciòe
anioris et eqoum illi, super quo e un destriero fornito gli donde,
residebat, exhibuit atque subiunxit. [XII, 7-8].
A questo punto del testo latino la donzella enumera minuzio¬
samente i pericoli che il cavaliere dovrà affrontare e gli accor¬
gimenti che dovrà porre in atto; nel cantare è omessa tutta
questa anticipazione inopportuna del racconto che seguirà poi.
E infatti ognuno vede quanto fosse uggioso questo raddoppia¬
mento della novella, la quale prima viene detta nel dialogo e
poi rappresentata nell’azione. Quando finalmente alle chiacchiere
si sostituiscono delle cose, allora ricomincia il cammino paral¬
lelo delle due novelle:
'tandem per agrestia nimis at¬
que ferocia loca decurrens ad lìu-
vium quendam devenit, qui mirae
latitudini atque altitudini erat
una profundus, et cuius prae ninna
sublimiate riparum cuilibet dene-
gabatur introitus. Iuxta ripae ta-
inen estrema diutius ambulando
devenit ad pontein, qui tali erat
forma compositus. Pons quidem
erat aureus et in duabus utriusque
ri pi capita tenens; medium vero
ponti residebat in aqua et sepius
vacillando procellarum vidcbatur
unda submersum. At ilio autem
capite, onde Britonis erat accessus
miles quidam residebat in equo,
A la riva d’un gran fiume giunse.
XIV.
E, non possendo quel fiume passare
perch’era cupo e d’ogni lato monte,
lungo la riva prese a cavalcare
tanto che d’oro ebbe trovato un ponte
ch’era sì basso, che per l’ondeggiaro
l’acqua impresso ispessa facìa fonte.
Dal primo capo un cavalier avea
armato e fier quantunque si potea.
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URBANA-CHAMPAIGN
106
E. LEVI
qui ferocia erat aspectus. Quem
Brito urbano satis verbo salutat,
sed ipse resalutare Britonem con-
tempsit.
XV.
E Bruto, poscia che l’ebbe veduto,
il salutò co’ molta cortesia
e quello [non] rispuose a suo saluto,
ma doinandollo poi perchè venia.
Il cavaliere invita il brettone a deporre le armi e, al diniego
di lui, lo assale con impeto; ma è abbattuto e vinto; cui cum
vellet caput Brito penilus amputare , humillima uteris prece
pontanus veniam a Britone meru.it impetrare quaesitam.
[XIX] E quel giogante gli chiese mercede
ed egli perdonò per cortesia...
Dall'altra parte del fiume sta un altro guardiano, il quale, ve¬
dendo che il cavalier brettone s'avanza verso il ponte,
... poutcm [scilicetj aureuin tanta
coepit fortitudine agitare quod sae-
pissime sub aquis non poterat ap¬
parerò submersus.
Brito vero plurinium super equi
bonitate confìsus in pontis tran¬
sito viriliter procedere non de-
sistit.
si forte il ponte cominciò a co ria re
che spesso sotto l’acqua il facìa andare.
[XIX, 7-8].
E Bruto per bontà del suo cavallo
pur passò oltre per lo ponte ratto...
[XX].
e affoga nell'acqua il pontiere (pontis agitatorem suffocavit in
aqua), poi procede per dieci stadi e perviene in un giardino,
nel quale si innalza un castello meraviglioso, ma privo di porte ;
Ex nulla tanien palatii parte ina no’ parca ch’avesse abitatore,
potuit conspicere portam vel ha- però che porta, finestra o sportello
bitatorem quemcumque videre. no’ si vedea da lato nè da fuori.
[XXn, 4-6].
Nel giardino è una mensa imbandita; il cavaliere si pone a
sedere, ma subito appare un gigante minaccioso con una gran
clava tra le mani. Il gigante chiede con qual diritto Brito si sia
assiso a una mensa non sua; ed egli risponde:
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I CANTAMI LEGGENDARI ITALIANI 107
Cunctis abundanter regia debet esse exposita mensa, nec cibum regiaroque
potum decet alieni denegari. Nani et mihi licet de stipendiis, quae militibus
sunt parata, praesumere, quia militari» sola me cura detentat...
Questo passo ci aiuta ad intendere un’ottava assai oscura e
intricata del cantare (XXVI):
— «Se queste mense son per gentil gente
ed io mi tengo ben d’esser gentile,
chè ’l padre mio fu molto soficiente
e suo paese molto signorile.
A la corte del re eh’è sì possente,
perch’io vi mangi no’ manca su’ stile • —.
Cioè: la reggia non vien meno al suo decoro, se io mi pongo
a questo desco, giacché le mense non si possono negare ai ca¬
valieri ed io sono di nobile schiatta.
Cui Brito ait: — Ego quidem — E son venuto per portarne meco
chirothecam quaero accipitris et uno isparviere che ’l re Arturo ha seco. —
haec fuit mei adventus occasio. fXXV, 7-8).
XXVII.
Ostiarius vero respondit: — 0 Disse il giogante: — Oh! t’inganua il
6tulte! Quanta te ducit insania, (pensiero.
Brito! Prius enim mortuus deciem chè gran sempricità nel cor t’abonda;
reviviscere posse» quam ea, quae chè sarebbe impossibile ad avere
asserì», obtinere. al più prod’uom, che è in Tavola rotonda;
... Tanta enim sum fortitudine ch’è per guardia del guanto più vedere
potens, quod vii ducenti meliores che quel palazzo intorno uon cerconda,
Brìtanniae milite» possent irato e, se compagni avessi un centinaio,
mihi resistere —. ti reterebbe il passo il portinaio.
L’ottava è assai difficile. Il codice reca: che per guardia del
guanto può vedere che quel palazzo intorno non cierconda.
Mutando il può del manoscritto in più , intendo : « è impossibile
« ottenere quel guanto poiché vi è per guardia di esso più ve-
« dere , cioè cosa maggiore a vedersi e più terribile, che non ne
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• «-x
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108
E. LETI
« comprenda all'ingiro tutto il grandissimo palazzo di Artù ». Nel
testo latino manca il tratto corrispondente a questo paragone
cosi aspro per la violenta ellissi.
Il generoso « Brito »
sic ait: — Absit quod unquain
eque» cum pedite certe»], nani pe-
ditem quemque decet cum
coramittere pugnai» !
dite
rispuose allora il generoso Bruto:
Non piaccia a Dio che io monti in arcione
ched e’ sarebbe troppo gran partito
combattere a cavai con un pedone!
[XXX, 1-4].
e ferisce in un braccio il gigante e poi lo obbliga a condurlo
nel luogo « ubi chirotheca reponitur ». Nel palagio di Artù si
innalza una bella colonna d’oro, che sostiene il peso di tutto
redifido; da essa pende il guanto tanto ambito. Uscito da quel
palazzo (t), Brito attraversa altri giardini ed entra in un se¬
condo castello, ch’era la reggia di Artù. La lunghezza della fac¬
ciata era di 000 cubiti (« secento braccia » dice il cantare), la
larghezza di duecento, il tetto e la faccia eran d’argento, d’oro
e di pietre preziose l’interno. Nel palazzo era un’altra colonna
d'oro, sulla quale era lo sparviero, ed eranvi legati i due bracchi.
Sed antequam ad predictum possct devenire palatium obstabat antemurale
quoddam inunitissimum ad palatii nituram adstructum ad cuius custodia»]
milites erant duodecim fortissimi deputati, qui neminein ulterius pertransire
sinebant, nisi chirotecaui deuionstraret accipitris, vel nisi gladio pugnando
vellet assumere viam. Quos cum vidisset Brito, chirothecam eia festinanter
ostendit accipitris. Qui ei aperto itinere dicunt: — Haec quidem via non
est tuae vitae salubria sed penitus inducta dolori». —
Nel cantare di Bruto la descrizione del palazzo è posposta
all’incontro delle dodici guardie ed il discorso di esse vien tra¬
dotto con queste semplici parole : — Passa, chè la tua vita sarà
molto bassa — (XXXVI). Segue nella novella latina e nel can¬
ti) Nel cantare non si parla di questa colonna e i due palazzi souo riu¬
niti in uno solo (ottave XXXVI-VII).
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V
I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI 109
tare (XXXIX-XLIII) l’apostrofe di un cavaliere della corte di
Artù a Brito, il duello e la vittoria di Brito; e allora Brito può
togliere dalla colonna il guinzaglio dei due bracchi, lo sparviero
e il libro, che ne pendeva, delle regole di amore. Quel libro è
indicato assai sommariamente nel cantare (« e tolse lo sparvier,
« la carta e' cani », XLIV. 1); ma nella novella è descritto con
gran ricchezza di particolari:
... vidit chartul&m conscriptam quae aurea catenella praedictae inhaerebat
perticae collimata, de qua quuni diligenter erquireret, tale pronieruit audire
responsum : — Haec est enim chartula, in qua regulae scribuntur amoris [quas]
rex ore proprio amatoribus edidit. Hanc te asportare oportet et regulas amati -
tibus indicare, si pacificum volueris accipitrem reportare. —
Presa licenza da Artù, Brito ritorna alla signora della selva,
che trova nel luogo preciso dove l’aveva incontrata la prima
volta. Ella gli dà licenza di riprendere il cammino verso la Bri-
tannia e dopo ben dieci baci si accomiata da lui, non senza un
sospiro di malinconica delusione.
Il libro di Andrea Cappellano fu composto, sembra, « sullo
« spirare del sec. XII o nei primissimi anni del XIII » (1); e fu
subito assai popolare in Italia. È citato da Albertano da Brescia
nel Liber de doctrina loquendi et tacendi (1245) e liberamente
tradotto in francese da un italiano del Nord, Enanchet, nella
terza parte dei suoi Ammaestramenti di un padre ad un figlio,
che furono trascritti nel solo codice, che abbiamo, da un certo
Rotino, guardia della torre « que vient dite Mizane » nel 1287. Di
Andrea Cappellano abbiamo due traduzioni toscane:
1° Il libro dell’amore il quale si chiama « lo Gualtieri »
fatto da Andrea Cappellano, della seconda metà del Trecento
(cod. Barber. XLVI-28);
2° la cosidetta versione fiorentina, anteriore al 1372, che si
(1) Cfr. P. Rajna, Tre studi per la storia del libro di Andrea Cappel¬
lano, negli Studi di filologia romanza, voi. V (1890), pp. 193-265.
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110
K. LEVI
conserva in quattro mss.: Riccard. 2317 (datato: 18 di marzo 1372)
e 2318; Laurenz. XLI. 36; Palat. E. 5. 6. 23.
Oltre a queste due traduzioni complete abbiamo anche una
traduzione parziale della sola novella del cavaliere brettone in
un bellissimo manoscritto del pieno Trecento (1): Gualtieri d’a¬
more nel primo libro del chavalicre brettone com’elli arrivò.
Questa terza versione non risale all’originale latino, ma è un
rimaneggiamento della traduzione fiorentina, anzi, forse, proprio
del testo riccardiano più antico (2). Antonio Pucci, autore del
Unito di Brettagna , era un lettore appassionato del Libro d’a¬
more di Andrea Cappellano, ch’egli cita a tutto spiano nel suo
Zibaldone : « Ora diremo di Ghualtieri, che mostra che si inten-
« desse molto dei fatti d’amore » e « Gualtieri d'amore parlando
« e assolvendo... » e « anchora dicie Gualtieri » ecc. (3). Dal Libr'o
d'amore il Pucci trasse anche una scabrosa « questione » che
raccolse in un sonetto, divenuto poi popolare forse per la sua
sudiceria (4). Il Rajna crede che nei suoi molteplici lavori il
(1) Laurenz. XLII. 38, c. 21-22. Questo cod. è mutilo; una parte costituisce
il cod. magliai). VII. 624. La novella di « Gualtieri d’amore » fu pubblicata
tra le Prose antiche di Dante, Petrarcha et Boccaccio et di molti altri no¬
bili et virtuosi ingegni nuovamente raccolte, Fiorenza, 1547, pp. 41-44, col
titolo: « Gualtieri d’amore nel libro del Cavaliere brettone » e poi moltissime
volte ristampata tra le novelle del Doni. Il testo riccardiano della Noe. di
Gualtieri (riccard. 2317, c. 55) fu ed. a Bologna nel 1856 ( Novella cavalle¬
resca tratta dal Libro d’amore), poi ripubblicata collo stesso titolo a V enezia,
1858, e poi a Bologna, 1876 (« T T n capitolo d’amore del libro di mess. Andrea
Cappellano d’Innocenzo IV >); cfr. F. Zambkini, Le opere volgari a stampa,
col. 225 e 689. Il testo laurenziano delle « Regole d’amore > le quali seguono
la novella del « Cavaliere brettone » è riprodotto in altri tre mss. affini, ap¬
partenenti ad una medesima famiglia : 1) Laurenz. XL. 49; 2) Panciat. XXIV;
3) Parigino, Bibl. Nat., fonds ital., 557.
(2) Riccard. 2317; cfr. P. Rajna, Op. cit., p. 219.
(3) Lo Zibaldone, o meglio Fiorita di varie storie, si legge in parecchi
mss. (cfr. G. Lazzeri, Sull’autenticità dello Zibaldone attribuito ad A. Pucci,
in questo Giorn., 54, 104 ). L’autografo è il cod. Laurenz. Tempiano 2; in
questo ms. le citazioni da Andrea Cappellano sono a c. 142-143. Intorno a
queste citazioni cfr. P. Rajna, Op. cit., p. 222.
(4) Incomincia: « Una che m’ha d’amore il cor ferito »; ma intorno all at-
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
111
Pucci avesse sottocchio la versione fiorentina, anzi proprio quella
del codice riccardiano; ma il mio venerato Maestro, quando com¬
poneva quelle luminose pagine su Andrea Cappellano, ignorava
resistenza del Bruto di Brettagna , il quale fornisce degli ar¬
gomenti sicuri per modificare in parte le sue conclusioni. In¬
fatti il cantare di Bì'uto deve risalire direttamente al testo la¬
tino, senza l’intermediario della traduzione « fiorentina », poiché
in molti luoghi si stacca dal testo volgarizzato (come, p. e., nel
racconto della conquista del guanto) e aderisce strettamente e
intimamente coll’originale latino. Andrea Cappellano dice che
l’amica del cavaliere era una « quaedam puella » senza nomi¬
narla; e innominata è nel cantare la fata buona, mentre nella
novella laurenziana ella è « la reina d’Amore cioè Venere ». Nel
testo latino e nel cantare di Bruto nel giardino incantato non
v’ò che un vaso solo d’argento contenente la biada per il cavallo,
« concila residebat argenti purissima », mentre nella novella lau¬
renziana quell’una si moltiplica in « molte conche d’argento,
« nelle quali erano apparecchiate profende da cavalli ». Nella
novella in volgare è omessa tutta la descrizione del Palazzo di
Artù, nella quale invece si diffonde per molte ottave il cantare.
E anche il nome stesso del protagonista dà a pensare. Brito
non è un nome proprio, è un aggettivo, reso correttamente nella
versione laurenziana « un cavaliere brettone » e in quella ric-
cardiana « un cavalier di Brettagna » o senz’altro « il Bretton »,
o « lo brettone » ( 1 ).
tribuzione al Pucci non ho la sicurezza che il Rajna dimostra. Di questo
sonetto conosco i codd. seguenti: Laurenz. SS. Annunz. 122, c. 108 [«non.];
Laurei)/.. Palat. CXIX, c. 133 [nnon.]; Mglb. VII. 1066, c. 13 [ntton.]; Ciu¬
ciano L. IV. 131, c. 697 Cod. Vicentino del Filostrato, c. 88 [ntioti.];
Laurenz. (ìadd. XC. 89, c. 168 b [nwott.]; Cod. Ottelio della Bibl. Com. di
Udine, c. 178 5 [anon.]] Vatic. Barberin. lat. 3999, c. 86 [nuoti.] ; Riccard.
1103, c. 108 [Antonio de la foresta da Firetize a ljorenzo Moschi ]; Bibl.
Naz. di Parigi, fonda latina, nouv. acq. 1745, c. 15 [nuoti.]; cod. Laur. Tem-
piano 2, c. 143 b.
(1) E poi si noti che Brito non poteva essere scambiato con Bruto che
nel nominativo, ma non nella forma volgare (= accusativo) : Brettotie.
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112
E. LEVI
Ma il Pucci, che era un assai debole conoscitore della lingua
latina, ed aveva piena la testa delle infinite leggende medievali,
fu tratto naturalmente a scambiare quell’aggettivo « brito » col
nome proprio « Bruto » dal ricordo di quel Bruto figlio di Enea,
fondatore del primo regno di Brettagna, che dà il nome al Roman
de Brut di Wace. Proprio per il richiamo al Bi'uto di Wace
l'originario aggettivo « brito » del testo del Libei' amoris fu
sdoppiato : esso diede non solo il nome « Bruto », ma anche l’in¬
dicazione della patria : « di Brettagna ».
Il Morpurgo crede che il cantare sia incompiuto: « nè si vede
« la ragione, dice, che fece interrompere a questo punto la copia
« per dar luogo nella faccia successiva, al poemetto seguente
« (VApollonio) ». Ma il confronto con la fonte del cantare di¬
mostra che il racconto finisce proprio all'ott. XLVI con la quale
termina il testo del codice:
46.
E poi con baci e con abbracciamenti
gran pezza il tenne senz’atto fallace,
e poi li disse: — Mo che t’argomenti
di ritornare a tua donna verace? —
Ed e’ le disse : — Se tu te contenti,
i’ farò volentier ciò che ti piace —
e ringraziolla di coraggio fino,
poi si partì e tornò a suo cammino.
Quae [domina] quidem de accepta
victoria non mediocriter gaudens, Bri-
tonem abire dimisit et ait : — De li-
centia me a recede, carissime, quia
dulcis te Britannia quaerit. Rogo ta-
men, ne gravis tibi videatur abscessus.
quia quandocunque ad haec volueris
solus accedere loca, me semper poteri*
habere praesentem. — Qui, osculo
assumpto, atque ter decies repetito,
Britanniam versus, gaudens, iter di-
rexit ainoenum.
Manca forse un’ottava di chiusa, con l’invocazione a Dio e la
soscrizione del poeta. Ma, compiuto il racconto, questa ottava
poteva venire improvvisata li per lì, secondo l’occasione e se¬
condo la qualità del pubblico, oppure poteva essere presa a pre¬
stito da un altro cantare. Le ottave iniziali e finali dei cantari
sono formule tradizionali e convenzionali, che non hanno una
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- - URBANA-G HAMRAKSN
I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
113
connessione molto stretta col testo e vi potevano essere tolte o
appiccicate secondo l’estro del canterino e gli umori di chi ascol¬
tava. Il trascrittore del codice dimenticò la chiusa o non si curò
di registrarla perchè essa era uno dei soliti luoghi comuni del
repertorio d’un cantastorie. E quello che dico è tanto vero,
che anche l’ottava iniziale del Bruto di Brettagna non è affatto
del Bruto , ma appartiene a un altro cantare, a quello di Ots-
mirante.
Bruto. Gismirantk.
I’ priego Cristo padre onnipotente
che per li peocator volè morire,
che mi concieda grazia ne la mente
ch’i’ possa chiara mia volontà dire.
E’ priego voi, signori e bona gientc,
che con efetto mi deggiate udire,
ch’io vi dirò d’una canzon novella,
che forse mai non l’odiste sì bella.
I’ prego Cristo Padre omnipotente,
che per gli peccator volle morire,
che mi concieda grazia nella mente,
eh’ i’ possa chiara mia voluntà dire ;
e prego voi, signori e buona gente,
che con affetto mi dobiate udire.
1' vi dirò d’una storia novella,
forse che mai noll'udiste sì bella.
Il cantare di Bnito non ha la fine per la stessa ragione che
non ha neppure il principio: perchè la fine e il principio erano
formule che venivano lasciate all’arbitrio e al gusto del canterino.
Il canterino li improvvisava o, se improvvisare non sapeva, li
sceglieva dai suoi centoni o li prendeva da altri cantari. Bruto
di Brettagna è importante appunto per questo, perchè ci mostra
come si venivano traendo dai libri e componendo e, direi quasi,
drammatizzando questi romanzi del Trecento. Noi vi sorpren¬
diamo il poeta a mezzo dell’opera sua di ri facitore e di rimaneg¬
giatore nel Liber Amorts. Quasi per attestare la sua riconoscenza
al libro che gli stava innanzi, il Pucci una volta lo proclama il
« fiore dei libri »: un libro che mi par degli altri il fiore (II. 2).
I^a verseggiatura di questo cantare è frettolosa e trascurata;
abbiamo qualche verso imperfetto e tre volte l’assonanza: tale,
contrade (XVI), cavallo, strale (XX), amaro, gaio (XXXV).
Anche la fretta ci spiega lo strano prestito dell’ottava iniziale
del Gismirante e l’omissione dell’ottava finale.
QUrrnaU storico — Sappi, a* !•. 8
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114
B. LKV1
XIII.
Madonna Llonessa.
Di questo cantare di Antonio Pucci il codice Kirkup non
conserva che le ultime quattro ottave, mancando prima della
c. 49 che le reca, altre quindici carte. Fortunatamente di M. Lio-
nessa possediamo un altro testo assai buono del Quattrocento, che
fu stampato nella « Scelti» di curiosità letterarie » nel 1806 (1).
Capitano, nobile signore italiano, va a Parigi a soccorrere il
re di Francia, che è in guerra coi Saracini, e si innamora della
regina ; ma ella, sdegnata dalle sue folli proposte d'amore, lo fa
imprigionare. Il re, quando sopraggiunge, ordina che, in punizione
dell’oltraggio, a Capitano siano tagliate « due oncie di lingua ».
Madonna Lionessa, moglie del Capitano, apprende la condanna
inflitta al marito e, spacciandosi per Salomone, vestita da uomo,
si mette in cammino per Parigi, col seguito di un ricco e biz¬
zarro corteo: mille preti, cento sapienti e mille cavalieri bene
esperti nella grammatica. A Parigi ella è ricevuta con grandi
onori e si pone in cattedra nella « sala mastra » della reggia
per definire le più astruse e delicate questioni. Dinanzi a lei
compaiono il re e Capitano, tutto coperto di catene, e vien letta
la sentenza delle due oncie di carne. Sta bene — dice Saio-
mone — siano dunque tagliate le due oncie di lingua; « ma se
« fie più o raen, la romperai ». Allora il re di Francia ordina
che la sentenza sia cancellata. Dopo ciò il finto Salomone parte
traendosi dietro il prigioniero ed in ogni città è accolto con
(1) Cod. Riccard. 2873, c. 103*117 b ; ed. da C. Garoiolli, Madonna Lio¬
nessa, cantare inedito del sec. XIV, aggiuntavi una novella del « Peco¬
rone », Bologna, 1866, Scelta di curiosità letterarie, disp. LXXXIX. — Le
quattro ottave del cod. Kirkup furono edite da M. H. Jackson, Ant. Pucci's
poems cit., in Romania, XXXIX, 322.
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I CANTASI LEGGENDARI ITALIANI
115
feste ed onori, specialmente dai preti, che hanno la coscienza
torbida; giunge a Roma, ove consiglia al Papa di riformare il
clero, poi a Firenze e assiste a un consiglio dei Priori e alla
cicalata d’un calzolaio « a ringhiera » e infine a Bologna. Du¬
rante il lungo viaggio Salomone domanda a Capitano s'egli sia
ammogliato e se egli desideri che il matrimonio sia sciolto ; ma
il buon Capitano, contrito e compunto, in nessun modo per¬
mette che lo si disgiunga dalla moglie che egli ama. Una notte
egli capita nelle stanze di Salomone e invece di Salomone gli
appare una bellissima dama nuda, che gli dice: Guarda se io
assomiglio alla tua sposa. Capitano e Lionessa si riconoscono,
si riconciliano e riprendono il cammino e la vita nell'amore
più puro e perfetto.
Al cantare di Mad. Lionessa si è raccostata più volte una
novella del Pecorone (IV, 1), della quale il Gorra (t) diede questo
sunto schematico:
0
Un mercante fiorentino molto ricco, venendo a morte, lascia eredi i due primi
tìgli, pregando il terzo di recarsi a Venezia presso un tal niesser Ansaldo,
ricchissimo. Giannetto, cosi si chiama il giovane, è ben accolto da Ansaldo e
dapprima conduce vita splendida; poscia incitato dagli amici si mette in mare
diretto ad Alessandria. Ma un mattino vede da lungi un bellissimo porto, ed
avendo udito esser colà un costume singolare, vuol tentare l’avventura. Sceso
al porto è gentilmente accolto dalla vedova di Belmonte, signora del luogo,
la quale dopo averlo festeggiato durante il giorno, lo conduce a sera a dor¬
mire seco.
2. — Ma prima che si ponga in letto vengono al giovane offerti da due
damigelle vino e confetti, ch’egli accetta di buon grado, senza sospettare in
essi un narcotico potente. Svegliatosi al mattino, gli è detto aver egli, se¬
condo il costume del paese, perduto ogni suo avere, perchè non era riuscito
a far sua la donna. Per questo caso Giannetto non ha pace e tenta altre due
volte la prova, alla fine con buon esito, si che sposa la vedova e riman si¬
gnore del paese.
(1) E. Gorra, Il « Pecorone », nel voi. Studi di critica letter., Bologna,
1892, p. 240 e segg.
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E. LEVI
3. — Ma inesser Ansaldo, non avendo avuto più mezzi per allestire la terza
nave e d’altra parte non avendo voluto scontentar il giovane, era ricorso ad
un giudeo, che gli aveva prestati 10000 ducati col patto che se non li avesse
resi entro il di di S. Giovanni dell'anno seguente, egli avrebbe potuto levargli
una libbra di carne da quella parte del corpo che gli fosse piaciuto.
4. — Giannetto che vive in delizie colla sposa, si sovviene, il giorno fis¬
sato, del pericolo a cui è esposto il suo benefattore; parte in fretta, giunge
a Venezia e trova che l’ebreo vuole ad ogni costo la libbra di carne, perchè
il termine è scaduto, rifiutando qualunque somma. Tutti sono costernati,
quando
5. — entra improvvisamente un giudice sconosciuto che sentenzia che il
giudeo ha il diritto di fare quanto chiede, ma se egli taglierà più o meno
di una libbra di carne, o se spargerà una goccia di sangue, sarà decapitato.
Il creditore allora preferirebbe il denaro, ma invano, e cosi parte tra le beffe
di tutti. Il giudice chiede a Giannetto per compenso l’anello ch’egli ha in
dito, e ottenutolo, sebbene a fatica per essere quello un ricordo della moglie,
parte. Ansaldo e Giannetto si recano a Belnionte, dove la sposa dapprima rim¬
provera al marito la mancanza dell’anello, poscia ridendo confessa di essere
stata essa stessa il giudice che aveva definito la lite.
L’argomento di questa novella fu nobilitato e consacrato dal
genio di Shakespeare, che ne trasse la tragedia The most
excellent History of thè Merchant of Venire (1598). Sia nella
novella di Giannetto come nella tragedia di Shakespeare sono
intrecciati due diversi motivi leggendari, l'astuzia della donna
per respingere gli innamorati [1-2] e l'obbligazione verso il
giudeo col conseguente giudizio dell’oncia di carne [3-5]. Nel
cantare di M. Lìonesm invece della prima leggenda non è
traccia alcuna e perciò mi pare che sia da escludersi subito ogni
parentela colla novella del Pecorone e con la famiglia di essa.
Della novella del Pecor. furono rintracciate moltissime fonti
medievali e tra tutte importanti due novelle comprese nel Do-
lopathos (nov. 4*) e nei Gesta Romanorum (nov. 10*), due po¬
polarissime raccolte di temi leggendari. In tutte le versioni che
0
precedono la novella del Pecorone e la seguono fino alla tra¬
gedia di Shakespeare, lo spunto essenziale del giudizio è il pre-
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
117
stito del denaro e la conseguente obbligazione (1). Invece nel
cantare il taglio di quell’oncia di carne non è inflitto come com¬
penso di una somma tolta a prestito e non resa, nè come sod¬
disfazione di un’antica promessa, ma come pena di un discorso
oltraggioso tenuto alla regina. Abbiamo cioè qualche cosa che
ci ricorda il vecchio motivo, ma non ne ha nessuno dei carat¬
teri nè alcuna delle linee essenziali. Si osservi poi che mentre
in tutte le altre novelle l’oncia di carne può essere tratta da
qualunque parte del corpo, nel coniare essa deve essere tratta
dalla lingua per osservare rigidamente il contrappasso ; la lingua,
che ha peccato, sola debba essere punita.
Nello scioglimento dell’azione il cantare coiucide con la no¬
vella e con le fonti di essa : infatti in tutti i testi, latini e vol¬
gala, la sposa stessa del condannato, travestita da giudice, si
presenta alla corte e impone che la imbarazzante condanna sia
eseguita alla lettera, ma a patto cbe, se si verserà una goccia
di sangue o si taglierà dalle carni una parte maggiore o minore
di quella stabilita uel contratto, ne segua la morte del trasgres¬
sore. Non v’è dubbio che questa parte della leggenda, a diffe¬
renza dell’altra, è di origine occidentale. Mi sembra anzi at¬
traentissima l’ipotesi del Simrock (2) cbe in questo aneddoto sia
da scorgersi uno di quegli exempla , coi quali gli antichi glos¬
satori solevano spiegare le disposizioni giuridiche latine e ger¬
maniche e mettere come in azione la filosofia della legge romana
e della legge consuetudinaria. L’antico diritto romano ammette la
vendita e la morte del debitore insolubile, e nel caso che i credi¬
tori siano parecchi, la « sectio corporis » del delinquente in parti
proporzionali ai vari debiti. E una delle leggi delle 12 tavole pre¬
scrive in proposito: Si pluribus addictus sit (se sia di più d’uno
(1) Cfr. G. Chiarini, Le due leggende del « Mercante di Venezia », nella
N. Antologia, 3* Serie, voi. XXXVIII (1892), pp. 399-431.
(2) K. Si m rock, Die Quellen dee Sìtakespeare*, Bonn, 1872, voi. I, pa¬
gine 221 e segg.
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E. LEVI
debitore), par tea secatilo, si plus minusoe secuerint se frande
est. Anche nell'atteggiamento della frase siamo ben vicini al giu¬
dizio salomonico del cantare : « ma se (ìe più o men , la rom-
« perai ». « La leggenda rappresenta la vittoria della Aequitas
« sopra il Jus stridimi , che è la sostanza essenziale di tutta la
« storia della legge romana. Il giudice non può piegare la stretta
« lettera della legge contro il creditore, ma egli può sollevare
« una opposizione contro la sua opposizione, piegando lui ad un
« Jus strictissimum , e cioè in favore della Aequitas , la quale
« come ogni più recente principio legale, si afferma nella forma
« di una Exceptio , annullando la sostanza della vecchia legge,
« senza formalmente distruggerla » (i). Questo conflitto tra il jus
strictum e Vaequitas e la vittoria dell’ aequitas per mezzo del-
T « exceptio » del jus strictissimum che uccide lo strictum , de¬
vono essere stati rappresentati con esempi e con aneddoti dalla
cattedra e negli scritti dei giuristi del Medio evo. L’esempio della
carne e del sangue era già additato nella legge delle XII tavole:
non mancava che l'invenzione del giudizio perchè la novella fosse
già perfetta.
Nel cantare l'autore doU’arguta sentenza è Salomone. Fare del
giudice uno pseudo-Salomone doveva essere uu’idea piana e na¬
turale, poiché a Salomone nei racconti biblici e leggendari si
attribuiscono molti altri giudizi analoghi; per esempio, quello
del bambino disputato da due donne e quello dell'eredità da di-
♦
vidersi tra il Aglio spurio e il Aglio legittimo (2). Credo dunque
che già in tempi assai antichi esistesse una novelletta giuridica,
una specie di exemplum ad uso dei commentatori, della quale
era protagonista del giudizio Salomone ed argomento la sen-
(1) Così K. Elze, Essay on Shakespeare, London, 1874, p. 96, citato dal
Chiarini, Op. cit., p. 417.
(2) Sercambi, nov. 40 e 41 (Novelle inedite di G. Sercatnbi tratte dal cod.
Trivulz. 193 da R. Rknier, Torino, 1889, p. 153 e segg.); G. Cortese-Pagani,
Il • Bertoldo » di G. C. Croce e i suoi fonti, negli Studi medievali, voi. Ili
(1911), p. 534.
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
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tenza che obbligava a versare un’oncia di sangue in seguito ad
un debito dianzi contratto.
Nel cantaro abbiamo la contaminazione dei due racconti e dei
• •
due motivi leggendari: i° il giudizio salomonico dell’oncia di
sangue; 2° il giudizio che sottopone alla pena della mutilazione
quella sola parte del corpo che ha fallato, cioè la lingua che ha
pronunciate alcune folli parole. Dell’aneddoto giuridico è conser¬
vata nel cantare la sentenza, ispirata alla ferrea logica del
« jus strictum », sono omesse tutte le circostanze accessorie,
il debito e il patto che ne segue tra debitore e creditore. Ri¬
spetto alle novelle del Dolopathos e dei Oesta Romanomm ,
le quali spiegano con un lungo racconto avventuroso anche le
origini di quel debito, il cantare si presenta ancor più semplice
e sommario; infatti dell’amore del debitore verso una fanciulla
e delle prodigiose astuzie di questa per sottrarglisi, in M. Leo¬
nessa non è traccia alcuna.
Resta da risolvere l’ultimo quesito: il Pucci ha tratto il can¬
tare da una novella in cui già i due motivi leggendari erano
frammischiati e atteggiati come il cantare ci mostra, oppure
quella composizione fantastica di elementi disparati è opera sua
originale? Ebbe il cantare di Af. Lioncssa una sua «fonte» pre¬
cisa come il cantare di Bntto, oppure il poeta lavorò liberamente
sulla trama di vaghe reminiscenze lontane? Ardua questione,
poiché i testi leggendari che ho indicato sono troppo remoti dal
cantare e la lacuna è troppo vasta per essere dominata e per¬
corsa dal nostro pensiero. La lettura del cantare suscita però
l’impressione che il Pucci qui sia assai più indipendente dalle
« fonti » scritte, che non negli altri cantari. Infatti la parte de¬
dicata al racconto della leggenda è nel cantare assai modesta;
la parte più considerevole è dedicata ai particolari bizzarri della
scandalosa vita del clero di Parigi (ott. XXIX), di Roma (XXXVI),
di Siena (XXXIX), di Firenze (XL) e ad una arguta satira dei co¬
stumi politici fiorentini. Siamo nel consiglio del comune di Fi¬
renze (ott. XLI e XLII): un calzolaio sale alla ringhiera e tiene
una concione per dimostrare che i donativi richiesti dagli eccle-
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URBANA-CHAMPAIGN
120
E. LEVI
siastici si possono benissimo risparmiare perchè Dio, che è ricco
a bizzeffe, non ha certo bisogno dell'elemosina dei fiorentini.
Tutti i consiglieri, toccati nel punto debole, l'avarizia, sorgono
in piedi e prorompono: « Egli ha ben detto ». Per queste argute
rappresentazioni delle debolezze umane, delle usanze politiche
cittadine, dell’ipocrisia del clero e della vanità della vita, il can¬
tare assume un’aria sottilmente canzonatoria e si illumina del
lampo d’un rapido sorriso di beffardo scetticismo. Questa comi¬
cità è originale e caratteristica del Pucci. Anche il dato fonda¬
mentale del racconto, il travestimento d'una donna e le avven¬
ture di essa sotto le mentite spoglie virili, è uno dei motivi più
cari alla piacevole e sorridente musa del Pucci; lo ritroviamo
con qualche variante accessoria nel cantare della Regina d’O-
riente , dove una fanciulla travestita giunge persino a prendere
moglie e a far girare la testa ad altre donne.
Per tutto questo penso che di « fonte » scritta di M. Lionessa
non sia il caso di parlare. M. Lionessa è una delle più libere
creazioni della fantasia del Pucci in quel periodo della piena e
calda maturità, al quale pure dobbiamo la Regina (l’Oriente.
Per la singolarità dell’argomento, per le vicende dell’azione e
per la placida arguzia che vi si diffonde, M. Lionessa deve con¬
siderarsi l'immediato antecedente di quel capolavoro della nostra
letteratura che è il poema della Regina (l’Oriente.
Nel cantare di M. Lionessa si citano • molti nomi storici e
geografici precisi, per mezzo dei quali il cantastorie si illudeva
di conferire alla leggenda l’aspetto d una « vera istoria ». 11 reo
condannato alla mutilazione della lingua si chiama Capitano; la
moglie sua, madonna Lionessa di Milano « che madre fue d'Az-
« zolino Romano » (I, 3). Evidentemente si allude ad Ezzelino
da Romano, che fornì tanti altri aneddoti leggendari alla no¬
vella e alla poesia antica; se non che la madre di Ezzelino non
si chiamava Lionessa, ma Cecilia da Baone. Ella fu veramente
una tragica donna ed ebbe davvero nella sua vita una storia
leggendaria, ma assai diversa da quella del cantaro. Rimasta
orfana, fu affidata a un tutore, che la promise in isposa a Ge-
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- UR B M T A KHAMPA1GN-
I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
121
rardo da Camposampiero. Ma Ezzelino I la rapì e la diede in
isposa al figliuolo Ezzelino li il monaco; e « un di, mentre Ce-
« cilia si recava a Padova, fu appostata dallo schernito Geiardo,
« che le fece vergogna per odio contro Ezzelino. Questi la ri-
« pudiò » (1).
XIV.
La regina d’Oriente.
Senza essere « una delle più originali creazioni dell’umana
« fantasia », quale fu proclamata (2), la Regina (VOriente ò dav¬
vero uno dei fiori più freschi e vividi della letteratura italiana.
« Questo è il fior della leggenda », la proclama l’artefice stesso
in un momento di legittimo orgoglio ( Regina , III, 1, 8). E infatti
per ben cinque secoli il nostro popolo, mentre si mutavano e
rimutavano usanze e gusti, sfiorivano e tramontavano le infa¬
tuazioni accademiche e scolastiche, il nostro popolo non si stancò
mai di udire cantare le belle ottave sonauti della Regina d’o¬
riente e nei suoi libri andò ricercando con curiosità sempre viva
e inesausta le mirabili avventure della regina, della segretaria
Berta, della castellana della Spina e del gran balbano del re
Macometto, Ronciglione.
Guglielmo Libri asserì che « très probablement la Regina
« d’Oriente est le plus ancien poème chevaleresque qu’on ait
« écrit originairement en Italie « (3). È un errore. Non vi è
(1) F. Zamboni, Oli Ezzelini, Dante e gli schiarì, 2 a ediz., Firenze, 1897,
pp. 116-149. Lo Z. aggiunge che la tragica donna fu celebrata « nei romanzi
e nelle canzoni popolari *.
(2) Cosi A. Bonu coi, H istoria delia reina d'Oriente di Anton Pucci fio¬
rentino, Bologna, 1862 (Scelta di curiosità letter., disp. XLI), p. 9.
(3) Catalogue de la Biblioth. de M. />.***, doni la vente se fera le lundi
28 juin 1847, ecc., Paris, 1847, p. 172. — Anche F. Zambrini, Le opere vol-
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- URBANA -G H AMPAIGN
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E. LEVI
dubbio alcuno clic questo cantare è degli ultimi di Antonio Pucci,
perchè l’arte del banditore fiorentino in questa più che nelle
opere precedenti si rivela piena, cosciente e matura e perchè
un’esplicita dichiarazione del poeta stesso (1,2, 1) ci richiama
agli anni dell’estrema vecchiezza :
Avendomi io, signor, posto nel cuore
di non perder più tempo a far cantare,
un libro che mi par degli altri il fiore,
cosi leggendo mi fè innamorare.
Quando si accingeva a quest'opera, Antonio Pucci aveva dunque
compiuti tutti gli altri cantari ed aveva già smessa l’idea di ci¬
mentarsi ancora con gli altri cantastorie più freschi di spirito
e di giovanile ispirazione. La Regina (l'Oriente deve essere stata
composta verso il LISO, ed intorno a quest'anno ci richiamano
alcune importanti testimonianze della sua fortuna. In quella enu-
merazione delle più celebri donne della leggenda che è nel can¬
tare della Sala di Malagigi (1380-1400), in quel medesimo passo
(ott. XX) dove si citano la donna del Vergili e la Pulzella gaia,
è ricordata anche la regina d’Oriente:
Eravi Marta e Maria Maddalena,
la pulzella Gaia col viso piacente,
appresso a lei la Regina d’Oriente.
Gregorio Dati, un cronista fiorentino dell’estremo Trecento
(nacque il 15 aprile 1362 e mori il 17 settembre del 1435), de¬
scrivendo la guerra tra Antonio della Scala, signore di Verona,
e Francesco il Vecchio da Carrara, signore di Padova (1383-84),
e la sfolgorante ricchezza de’ loro apparecchi, esce a dire:
Ciascuno di loro si mise in punto con uno sforzo e spendevansi danari assai,
intanto che si disse allora per favola che l’apparecchio di quello da Verona
gari a stampa 4 , col. 846, ripete la medesima notizia: € Egli è probabilmente
< il più antico poema di cavalleria che originariamente venisse scritto in
« Italia ».
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
123
era simile per nobiltj\ a quello della Reina d’Oriente. Non
aveva misura la spesa e l’esercito e le carra e il carriaggio e gli armamenti,
che non si ricordava simili di gran tempo a drieto (1).
Le carra, di che parla Gregorio Dati, sono precisamente quelle
« coverte a scarlatto », tirate da ambiatiti e forti destrieri, che
stilano nelle ottave 24-27 del primo cantare; « l’apparecchio »
è il « trionfale fornimento » della regina, che valea più di sette
Rome. La Regina (l'Oriente, continuò a leggersi con pari fer¬
vore ed uguale fortuna nel Quattrocento e nel Cinquecento.
Della sua diffusione sono buona testimonianza i moltissimi codici,
che corsero tra le mani callose di vinattieri, di artigiani e d’uo¬
mini d’arme, come le chiose e le note iniziali ci raccontano, e
le molte edizioni che l’arte ancor bambina della stampa am¬
manili alla sempre crescente curiosità popolare. La serie delle
stampe si apre con una fiorentina del 1483 ; e forse continua an¬
cora ai giorni nostri (2). Un passo del Ma Iman ti le r acquistato
(1) L. Pratesi, L'« Istoria di Firenze » di Gregorio Dati dal 1380 al 1403,
illustrata e pubblicata, Norcia, 1902, p. 25. Evidentemente il Pratesi prende
un abbaglio quando annotando il passo suppone « che qui si alluda a Cleo¬
patra, regina d’Egitto >.
(2) I codici e le stampe sono enumerati nel mio Fiore di leggende, pp.364-367.
Ai manoscritti si aggiunga ora un codice cartaceo, ch'eia in vendita a Livorno
nel 1914 (cfr. Catalogo della collez. d'arte, e d'antichità appartenuta al pittore
prof. Augusto Volpini di Livorno [Livorno, 1914], p. 110, n. CCCLXXXXVTI)
ed è ora entrato a far parte delle mie collezioni private. Alle stampe si ag¬
giungano le seguenti : I. La Reoina | d’Oriente. || Opera di molto esempio |
a ciascheduna persona. — In Siena, s. a., di [22] carte: 185 ott. Ha una si¬
lografia (c. 1“) che « rappresenta una donna con la corona in testa, che tiene
« le mani accoppiate e col braccio sinistro regge nn bastone, forse uno scettro,
« portante in cima una minuscola bandiera, nella quale si vede una croce ».
Una precisa descrizione bibliografica ne diede L. Matteucci, Descrizione ra¬
gionata delle stampe popolari della Governativa di Lucca, n. XXXIII, nel
Libro e la stampa, N. S., anno V, p. 72. — II. Storia | della | Regina d’O¬
riente | Dove si tratta di molti apparecchi | Trionfi, e Feste tra valorosi |
Cavalieri | con bellissime Figure adornata. — Lucca, s. d., per Frane. Mare-
scandoli a Pozzorelli (in-16°). Le varianti di questo testo rispetto al codice
ei-Volpini sono date nel margine di quel manoscritto.
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E. LEVI
(li, 45) ci attesta che alla fine del Seicento (1676) i contadini
toscani ne sapevano ancora a memoria, tutte quante, le ottave
dei quattro cantari:
Tre dì euonàro a festa le campane
ed altrettanti si bandì il lavoro;
e il suocero, che meglio era del pane,
un uom discreto ed una coppa d’oro,
faceva con gli sposi a scaldamano,
talora a Mona Luna e Guancial d’oro,
e fece a' paggi recitare a mente
Rosana e la Regina d’Orlente.
Della rapida, larga e durevole fortuna del suo poema il Pucci,
ch’era un esperto conoscitore dell’anima del popolo, ebbe il pre¬
sentimento preciso e sicuro; e in molti luoghi dei quattro can¬
tari lo appalesa e se ne gloria. La leggenda è cosi bella, egli
dice (I, 2) « ch’io vi prometto ch'a la vostra vita, si bella istoria
« non avete udita »; tanto bella si era, che la sua stanca fan¬
tasia, ch’egli credeva ormai spenta per sempre, ebbe un guizzo
e se ne ravvivò con mirabile ardore. Due volte il Pucci accenna
a questo libro cosi interessante e commovente, che gli diede
l’ispirazione e incitamento all’estremo lavoro della sua vita; nel
primo e nel quarto cantare:
se è vero ciò che conta un libro antico (1,27.8).
se ’l libro non erra... (IV, 34. 6).
Qual’era dunque questo libro? 11 Wesselofsky, il solo stu¬
dioso che si sia finora occupato di questo argomento (1), inco¬
minciò la ricerca negando senz’altro che quel libro sia mai esi¬
stito. Quegli accenni, egli dice, hanno lo stesso valore delle
(1) A. Wksselop8KV, Le tradizioni popolari nei poemi d’Antonio Pucci,
nell 'Ateneo italiano, Giornale di scienze, lettere ed arti, voi. I (1866), pa¬
gine 225 e segg.
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
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citazioni di Turpino, che snocciola l’Ariosto; sono spiritosaggini
e ghiribizzi. Ma no; leggiamo le prime ottave del poema e la
serietà solenne e ispirata dell’artefice in cospetto della sua crea¬
zione ci convincerà subito che non è da pensare a una celia
grossolana. È un soffio di entusiasmo commosso quello che sale
da questa confessione:
avendomi io, signor, posto nel cuore
di non perder più tempo a far cantare,
un libro, che mi par degli altri il fiore,
cosi leggendo mi fé’ innamorare,
che poi rimato l’ho, per vostro onore.
La betta è fuor di luogo. Nè vedo perchè invece che « nel
libro », un libro classico o un libro romanzesco, si debba cer¬
care senz’altro la fonte della leggenda nelle tradizioni orali e
nelle novelline del folk-lore. L’argomento dei quattro cantari si
può scomporre in pochi elementi essenziali. L’imperatore di Roma
si innamora per fama della regina d’Oriente e per attirarla nella
sua città la fa citare dinanzi al Papa perchè si difenda da varie
accuse. L’imperatrice, complice dei tristi disegni del figlio, chiude
la regina con lui in una stanza; ma le dame d’onore della regina,
che sono dei turchi giganteschi travestiti da donna, sgominano
gli sgherri imperiali e la regina stessa con un colpo di spada
uccide l’imperatrice. Dopo qualche tempo la regina dà alla luco
una bambina ed ella imprudentemente annuncia che il neonato
è un maschio e poi lo fa allevare come tale. L’imperatore, vo¬
lendo dare marito ad una sua figlia, pensa all’erede della co¬
rona d’Oriente, e questi, benché per natura si senta incapace
di diventare lo sposo della principessa, per amore di pace ac¬
cetta la proposta. La prima notte di matrimonio ella riesce a im¬
pietosire la sposa e ne ottiene il segreto riguardo a quel loro caso
singolare; ma alla fine l’imperatore, per la delazione d’uua donna,
donna Berta, apprende la verità e vuol sincerarsene cogli occhi
suoi. Fa bandire una caccia e preparare un bagno, dove il re
verrà a spogliarsi dopo le fatiche venatorie. Il re, messo sul-
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l’avviso da un cortigiano, si getta in un foltissimo bosco e prega
Dio che gli tolga senz’altro la vita; ma ecco, gli appare un cervo
che reca tra le corna un'immagine angelica. L'angelo lo con¬
sola e gli annuncia che egli è d’ora innanzi maschio « ed ha ciò
« che bisogna ». Quand'egli poi si spoglia per entrare nel bagno,
fa cosi bella mostra di sù, che molte dame se ne innamorano e,
tra le molte, la donna della Spina. Ella si apposta in una rocca
e, quando il re passa por ritornare in Oriente, lo fa prigioniero.
La regina accorre con un esercito, pone l'assedio alla rocca e
libera il marito, traendo prigioniera la donna della Spina. Ma
costei nel fondo del suo carcere riesce a corrompere un guar¬
diano e per mezzo di lui ottiene la difesa del re di Francia. Ap¬
pena ella è libera, va a Roma alla corte di Maometto e dopo
molti altri incantesimi e stregonerie, fa che Ronciglione, gran
balbano dei maomettani, accorra nella capitale del regno d’O-
riente a porvi lo sgomento e lo scompiglio. Ma la regina d’Oriente
invoca l'aiuto di Dio e, aH’udire le sacre preci, l'orribile R 011 -
ciglione scompare.
Questa a larghissimi tratti la bizzarra trama del poema, che
riesce oltremodo attraente non solo per la ricchezza inesauribile
delle trovate fantasiose, ma anche per l'ironia fine e sottile con
la quale il poeta tratta i suoi eroi, la divinità, la Vergine, i Santi
e persino i lettori. V’è nella Regina d’Oriente più che una comi¬
cità casuale e fuggevole, come negli altri cantari, una comicità
profonda ed organica, connessa con la creazione stessa del poema.
Ironica è sin la scelta della favola, la quale è assurda, para¬
dossale, sfacciatamente inverosimile e spudoratamente empia:
« una fanciulla vestita da uomo, presa per tale, costretta a con-
« trarre un matrimonio ed a rivelare il suo sesso alla compagna,
« che di sposa diventa sorella; la prova del baguo, che il padre
« della fanciulla maritata vuol fare al creduto sposo, risoluto a
« condannarlo a morte se natura di femmina vi trova » (1).
(1) A. Wesselofsky, Op. cit., p. 225.
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
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La comicità piena, squillante, che non si arresta nè alla soglia
della reggia, nè a quella della chiesa, lo spirito beffardo, irre¬
quieto e irriverente conferiscono a questo cantare l’aspetto e
il pregio del più importante antecedente del Margarite. 11
Wesselofsky, trascinato da questo impeto di irrefrenabile co¬
micità che si sprigiona dalle ottave della Regina d'Oriente,
vorrebbe riconoscere una burla anche nella grave e patetica
citazione del « libro antico », fonte di tutta la favola, che è al
principio d’ogni cantare. Piuttosto che la riduzione in rima d’un
romanzo in prosa o d'un testo latino o francese, nella Regina
(l'Oriente egli ravvisa lo svolgimento bizzarro e ghiribizzoso
d’un diffusissimo motivo della poesia popolare: quello conosciuto
col nome di « Ragazza guerriera » (1). Una fanciulla si traveste
da soldato e combatte in luogo del padre suo; il figlio del re
se ne innamora, perchè gli sembra di riconoscerla per donua.
Ella sfugge agli accorgimenti che il principe e la regina pon¬
gono in opera per scoprire il suo vero sesso e alla fine della
guerra ritorna a casa traendosi dietro il suo innamorato, sempre
fedele durante le più strane avventure. Nella Ragazza guer¬
riera abbiamo il motivo della Regina (l’Oriente rovesciato;
ivi una donua si traveste da uomo ed è amata per donna, qui
la fanciulla travestita è desiderata per quel che pare e non per
quello che è. « Una transizione organica » tra le due forine della
favola s’ha, dice il Wesselofsky, in un canto serbo; di una fan¬
ciulla, travestita da uomo, si innamora la figlia del re, che la
sposa. Il finto guerriero si trova in grave imbarazzo, di fronte
all’ardente innamorata; ma finalmente ella muta sesso « senza
però che il miracolo intervenga a risolvere l'intricata questione ».
(1) Se ne hanno tre versioni piemontesi edite da Costantino Migra. una
portoghese ed. da R. Kohler-F. Wolf, Proben Portugiesische-r unti Votala-
nischer Vólks-Romanze», nello Jahrbuch fiir romantiche utul engìitche
Litterntur, voi. Ili, n. XII, e infine una albanese ed. da J. G. von Hahn,
Griechischc und albanesixhe Miirchen, Leipzig, 1864, n. X e n. CI.
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Le relazioni tra queste novelline e il cantare sono così vaghe
ed incerte che non so cogliere un nesso qualunque che ve le
rannodi. Del canto serbo, che è quello che più si ravvicina alla
Regina d’Oriente, ignoro la storia, nè vedo quale buon vento
l’abbia potuto arrecare tra via delle Fornaci e Rengyo. E mi
sembra davvero inutile ed assurdo l'interrogare quei lontani pa¬
stori della Drina e della Sava, quando un racconto di simile ge¬
nere si trova già consegnato nelle pagine d’un libro straordinaria¬
mente noto tra noi, le Metamorfosi di Ovidio (IX, v. 669 e sgg.).
Racconta Ovidio: Ligdo, cittadino di Festo, aveva minacciata
di morte la sposa, Teletusa, se ella avesse dato alla luce una
femmina. Per sfuggire alla condanna la moglie annuncia che la
figlia, che ora le è nata, Ifi, è un maschio e la fa allevare come
tale. Tredici anni dopo Ifi viene fidanzato a Janta. Invano, con
ogni pretesto, Teletusa cerca di differire le nozze; allorché queste
stanno per celebrarsi, ella prega Iside che operi il miracolo di
convertire Ifi in un maschio. E il miracolo, con soddisfazione di
tutti, si compie. La popolarità di Ovidio era cosi larga nel Medio
Evo (1) che l’imbarazzo nasce piuttosto dalla ricchezza della
letteratura ovidiana, che il Pucci potè conoscere, che dalla scar¬
sità delle notizie. Al tempo del Pucci il volgarizzamento più
diffuso delle Metamorfosi era ancor quello composto da Arrigo
Simintendi da Prato prima del 1333 (2). Qualche anno avanti
la composizione della Regina d'Oriente un altro volgarizzatore,
anzi un vero « avventuriero del classicismo volgarizzante del
« tempo », Giovanni dei Bonsignori (1370), aveva rinfrescata la
materia delle tradizioni ovidiane « et raccolte in breve sermoni*
« le historie et fabule del libro magiore del poeta Ovidio ditto
0) Cfr. K. Bartscu, Albrecht von Haìberstadt und Ovid im Mittelalter.
Leipzig, 1861; M. Manitics, Beitràgezar Gesch. des Oridirn and anderen rii-
mischen Schriftsteller im Mittelaìter, nel Philologm, Suppl. VII, 4; A. Gkaf,
Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medioevo, Torino, 1883, II,
pp. 296 e segg.
(2) C. Marchesi, Volgarizzamenti ovidiani nel secolo XIV, in Atene e
Roma, XI (1908), p. 275 e segg.
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I GANTABI LEGGENDARI ITALIANI
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« metamorphosoos » (1). Senonchè la leggenda ovidiana appare
troppo scheletrica e sommaria di fronte alla ricchissima favola
del cantare; e troppo gigantesca sarebbe stata l’opera della fan¬
tasia del Pucci, se soltanto da quei pochi e frammentari elementi
ovidiani egli ne avesse tratto l’intero romanzo, con uno slancio
e con uno sforzo potente di creazione. E poi il Pucci ci parla di
« un libro »; nè tale potea dirsi il breve episodio di Ligdo e Te-
letusa. In quale componimento medievale confluirono dunque le
acque della tradizione ovidiana o meglio, se così si vuole, quelle
della leggenda preovidiana, di cui Ovidio stesso si fece poi bandi¬
tore neH’occidente (2)? Per quali vie, segrete o palesi, non so; ma
la bizzarra novella della tramutazione dei sessi, attraversando
il Medio Evo, giunse nel secolo XIII ad arricchire i tesori fan¬
tastici della giulleria ed i troveri ne trassero un poemetto, la
Chanson d’Ide et Olive. La Chanson d’Ide costituisce uno dei
complementi alla Chanson de Huon de Bordeaux conservati
in un prezioso manoscritto torinese (3) e messi insieme da due
troveri della seconda metà del Duecento, piccardo l’uno, d’ignota
patria il secondo (4). Ecco, in due parole, di che qui si tratta.
(1) C. Marchesi, Le allegorie ovidiane di Giov. del Virgilio ; le ‘alle¬
gorie ’ di Giovanni de' Bonsignori, negli Studi romanzi, Y r I (1908).
(2) L’episodio ovidiano corrisponde a quello di Galateia, raccontato da Ni-
candro. Galateia era moglie di I.ampros; costui l’aveva minacciata di
morto, qualora ella avesse data alla luce una femmina. Nasce una bimba e
Galateia la fa allevare come se fosse un maschio, sotto il mentito nome ma¬
scolino di Leukippos. Dopo svariati avvenimenti, la divinità tramuta Leu-
kippos in un maschio. I testi di questa leggenda sono cit. in Pavlv’s Beai-
Enciclopddie der Class. Altertumswissenseliaft i , VII, I, 518.
(3) Ms. L. II. 14; cfr. Esclannotule, Clarisse et Fioretti, Yde et Olive,
Drei Fortsetzungen der Chanson von Huon de Bordeaux nach der ein-
zigen turiner Handschrift zum Erstenmal verOflfentlicht von Max Schweiqkl,
Marburg, 1889 [Ausgctben unti Abhandlungen aus dem Gebietc der Boni.
Phtlologie, veróflf. von E. Stengkl, LXXXITIJ.
(4) Secondo i risultati delle ricerche dello Schweigel si devono al primo
poeta: Eselarmonde, Clarisse et Florent e la « C'hanson d’Yde * fino al
v. 7644 (§§ 59-61); al secondo l’ultima parte di Yde et Olive (v. 7645-8420),
che comprende anche la • Chanson de Croissant ».
Giornale storico — Suppl. n° IO. 9
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K. LEVI
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Clarisse, bellissima regina di Aragona, muore dando alla luce
una bambina; il marito Florens, che Tania teneramente, « et nuit
« et jour pour sa femme souspire ». Passano quattordic’anni ;
la bimba è ora una meravigliosa fanciulla e principi e baroni
accorrono da ogni parte per chiederla in isposa. Ma un giorno
di maggio Florens raccoglie la baronia ed annuncia la sua in¬
tenzione di rimaritarsi. La gioia dei vassalli si muta repentina¬
mente in orrore, quando Florens addita nella sua figlia la sua
fidanzata; invano i baroni coivano di distogliere il vecchio da
cosi infame proposito, invano si appellano alle leggi divine.
6505 Florens a dit: — Leceour pautonnier!
N’est hoin vivans, qui m’en puist traire arrier. —
Yde decide di fuggire e, approfittando della confusione per
Tarrivo di Desiier de Pavie, si traveste da uomo e cavalca per
i boschi; giunta a Barsillon, si colloca come scudiero al servizio
di un cavaliere tedesco, che è in cammino per Roma. Lungo
la via la comitiva viene assalita da settemila briganti e tutti sono
uccisi, tranne Yde, la quale poco dopo capita in un accampa¬
mento di quei ladroni e chiede da mangiare. I ladroni la vo¬
gliono trattenere prigioniera, ma ella fugge dopo aver abbattuto
il loro capo in singolare tenzone. Giunta finalmente a Roma,
Yde si presenta a Ottone e gli narra le sue ultime avventure ;
e l’imperatore le accorda'l’ufficio di scudiero della sua bella
figliuola Olive. Intanto il re di Spagna, offeso perchè Olive ha
respinto la sua richiesta di nozze, con infinito stuolo di armi¬
geri si accampa sotto Roma; Yde compie prodigi di valore e
sgomina il nemico. In premio di tanto eroismo Ottone decide
di offrire a Yde la mano di Olive; raduna i baroni, annuncia
le nozze e tiene corte bandita per un mese. Yde segretamente
piange la sua sfortuna, perchè teme di essere condotta a morte,
appena si sappia l’inganno del suo travestimento. Alla fine giunge
il supremo momento:
... Olive mainnent en la cambre pavé?
7124 Coucie lont et puis lont enclinée
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
181
Es vous Yd&in qui vient toute esplourée
Le cambre a bien verouille et fermée
Puis vint au lit u estoit sespousée
Si lapella coìement a celée
Ma douce amie et loiaus marYée
La botine nuis vous soit anuit donnée
Car jou larai mont gries si con jou bée
7132 Jou ai I mal dont jai ciere tourblée.
| •
Con la scusa di questa malattia, Yde riesce a differire di altri
quindici giorni Listante della rivelazione. Ma alla fine Yde è
obbligata a raccontare alla sposa coni’ ella sia fanciulla e non
uomo, com’ella sia sfuggita alle sozze brame di Florent e le
chiede ch’ella serbi il segreto. Inutile precauzione; un garzone
celato ha udito tutto il discorso e va a riferirlo ad Ottone. Costui,
furibondo del tratto, decide di sorprendere a ogni costo il vero
e medita l’artificio del bagno :
7204 I baing f&it f&ire tn la sale pauée
Dedens entra puis a Yde mandée
Et elle i vint li rois la conmandée
— Despouillés vous sans point de dcmorée
Venés o moi baignier ensi magrée —
Cele respont qui fu espflentée.
[219]
— Biax sires rois dit Yde au cors mollé
Et sii vous plaist de chou me desportai.
Li rois respont tous les dras osterés
Sii est ensi que on ma deviset
Je vous ferai ambe II embraser —
Yde trambla Olive a souspiré
A genouillons a Diu merci cric*
Li rois a tout son barnage ntandé
Devant aus tous ceste cose a conté
Tout em plourant a cascun escrié
— Seignour dist il que conseil me donrés
Fai les ardoir cascuns li a crìé
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B. LEVI
I
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Ensi con Yde a de paour tramblé
Devers le del descent une clartés
Ce fu una angles Dir le fiat avaler
Au roi Oton a dit tout cois estés
Jesus te mande li rois de niaiaté
Que tu te baignes et ai lai chou ester
C’ar jou te di en bone venti*
Bon cbevalier a u vassal Ydé
Dix li envoie et donne par bonté
Tout chou cuns hom a de suinanité
Lai le garchon diat li angles aler
Il YOU8 avoit dit voir mai cest passe
Hui main iert feme or est uns hon carnea
Dix a partout poissance et pOesté
Otes bona rois dedens vm jours venrés
En lautre siede de cestui partirés
Et vostre tille auoec Ydain laires
7239 J fil aront Croissans iert apellés.
Cosi infatti avviene:
7245 ... En cel jour fu Croissans engenrés
Li mot del angle sont mout bien retenu.
Perfetta è la coincidenza delle parti centrali della Regimi
(l'Oriente con la Chanson d'Yde et Olire; dall’ottava 7 del
cantare III fino all’ottava 40 il racconto riproduce uno dopo
l’altro gli episodi della «chanson», l'amore della principessa
per il nuovo venuto, le nozze, il colloquio degli sposi cosi male
assortiti, il bagno, l’intervento dell’angelo, la mutazione di sesso.
V’è in più nella Regina d’Oriente tutta la complicata storia dei
carteggi tra le corti di Roma e d’Oriente ; la parte del semplice
garzone viene affidata, dal cantastorie italiano, a donna Berta,
e la rivelazione casuale trova nella vendetta di donna Berta la
sua ragionata motivazione psicologica. Non hanno alcun riscontro
nella Chanson d’Yde et Olire la prima parte (cant. I e II), cioè
le avventure della regina-madre, e l’ultima (c. Ili, 43-50, e IV),
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1 CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
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Tumore morboso della signora della Spina per il re d’ Oriente
e le guerre da lei suscitate, con l’intervento diabolico dei bal-
bani di Maometto.
Tutto sommato, sebbene gli episodi essenziali trovino riscontro
nel poema francese, questo appare ancora insudiciente per rap¬
presentare la fonte immediata dei quattro cantari. Per aprirci
un varco nella meravigliosa, ma intricata foresta della lettera¬
tura leggendaria, dobbiamo ora affrontare un grave problema:
l’origine degli otto cantari della Bella Camilla , i quali sono per
la loro materia strettamente connessi con la Regina (l’Oriente.
La Bella Camilla è opera di quel Pietro di Viviano, canterino
di Siena, di cui si ha qualche notizia sulla fine del Trecento e
al principio del Quattrocento e qualche componimento popola¬
resco, per vero non molto vivido di poesia (1). Si legge in tre
codici, tutti del Quattrocento (2). Anche Pier canterino, « il qual
si diletta, d’antiche storie far nuova ricordia » (IV, 1, 6) dichiara,
al pari del Pucci, di volgarizzare, anzi di rinnovare una leg¬
genda già nota (1, 2, 4); ed a quel libro si appella spesso.
Amideo, re di Valenza, ha dalla moglie Idilia una figliuola,
Camilla, che viene allevata con una educazione tutta virile. In¬
tanto Idilia ammala e, giunta agli estremi, impone al marito:
Giuratemi per fede
di non prendere in vostra vita moglie
ch’ella non sia più bella di mene.
Amideo, dopo aver cercato invano una donna simile, fa chia¬
mare Camilla e le dice:
Bella figliuola, i’ ti vo’ per mogliera!
(1) Cfr. F. Novati, Le poesie sulle frutto, cit., nel voi. Attraverso il Me¬
dioevo, pp. 330-335 ; 347-48.
(2) Palatino CCCLIX, scritto da un Lorenzo Morelli [cantare di Camilla]-,
Laurenz. PI. XLII, 28, c. 49 [ Camilla bella J; Laurenz. LXXVTII, 23 [Otto
cantari di Amadio], Fu pubblicato diplomaticamente dal codice Palatino da
V. Fiorini, La bella Camilla, poemetto di Fiero da Siena, Bologna, 1892
[ Scelta di curiosità letter., disp. CCXLIIIJ.
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r. LUTI
Per deludere lo brame di Araideo, Camilla tinge di assen¬
tire e si chiude nella rocca della Spina con un suo fratello di
latte, Mambriano; con lui fugge sul lido e imbarca sulla galea
d'un certo Ricciardo. Si traveste da cavaliere e prende il nome
di Amadio, mentre Mambriano cambia il nome in quello di
Fedele.
La galea approda all'isola Sicura; Bambelina, figlia del re
indigeno Alfano, si accende di furioso amore per Amadio, ve¬
dendolo addormentato sul lido, e vuole abbracciarlo; ma è ri¬
pagata con uno schiaffo. Dopo una mischia generale, i naviganti
riprendono il mare e dopo una nuova serie di avventure giun¬
gono a un monastero; anche la badessa, come Bambelina, s’in¬
namora dell'irresistibile Amadio; ed anche lei con quel bel frutto.
Nuova burrasca, e finalmente si sbarca nel porto di Leanza
nel regno di Aquileia, governato da re Felice, padre d’una prin¬
cipessa splendida come una stella, Cambragia:
Signori, il libro e la storia mi dice
che questa terra si regge a signore
per uno che avea nome il re Felice.
Amadio, come Yda alla corte di Ottone, snocciola una fanta¬
stica storia ed è creato scudiero del re. Viola Bianca, damigella
di Cambragia, se ne innamora e alla fine se ne innamora anche
Cambragia stessa, la quale arditamente, un giorno che Amadio
è a caccia e si china per raccogliere un falco, lo bacia in sulla
bocca. Il re Felice intanto ha deciso di dare in isposo alla figlia
il duca Carlo d’Ungheria; ma Cambragia, cui ben altro frulla
pe’l capo, non ne vuol sapere. Si bandisce un torneo: il vin¬
citore otterrà la mano di Cambragia. Fedele, Ricciardo e Amadio
formano una schiera, tutti vestiti di verde; e Amadio reca sul
cimiero una manica della bella Cambragia ; essi riescono vinci¬
tori, sicché la scaltra principessa
disse gridando: — Tràne carta, notajo,
chéd io questo baron to’ per marito! —
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
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Il marchese di Brandeburgo, geloso della felicità di Amadio v
e subodorando qualche segreto imbroglio, colloca sotto il letto
nuziale un suo nano, il quale ascolta, venuta la notte, le pro¬
teste d’amore dell'ardente Gambragia, le timide difese dello sposo
e la rivelazione dell’avventura. Avvisato dal marchese, re Felice
prepara una prova per porre in chiaro la verità e fa bandire:
tutti in brigata al bagno n’andereino,
c questa notte si ci bagneremo.
Sul più bello, appare una leonessa e mette in Scompiglio lo
spettacolo, si trae dietro Amadio in un bosco e ivi si rivela
per un angelo : dopo di che « Camilla bella trovossi garzone *
(Vili, 17, 8).
È inutile riferire il resto, che si indovina.
Il poema di Camilla bella è assai lungo. Ma la lunghezza
non deriva dalla ricchezza degli episodi come nella Regina (l’O¬
riente ; è la conseguenza della ripetizione artificiosa e mecca¬
nica di alcuni dati fondamentali, tratti dalla Chanson d’Yde et
Olive. Tra le premesse e lo scioglimento, Pier Canterino ha tro¬
vato comodo collocare gli amori suscitati dal finto Amadio in
Bamhelina, nella badessa, nella Viola Bianca, i quali allontanano
l’episodio finale di Cambragia. Ma se quella varietà poteva illu¬
dere le folle distratte di S. Martino del Vescovo, non inganna
punto l’occhio vigile di chi è esperimentato di simili artifici
leggendari ; tutta quella borra non conta nulla nella compagine
del racconto. E tolte quelle ripetizioni meccaniche del motivo
essenziale, il cantare combacia esattamente, in tutte le sue parti,
persino nelle minuzie, con la Chamon d’Ydeet Olive. Gli otto
cantari della Bella Camilla conservano intatta anche la prima
parte della leggenda, la quale è omessa nella Regina (l’Oriente',
la ragione della fuga e del travestimento doll’eroina, per sfug¬
gire alle nozze col padre. Tutto dunque fa credere che il libro
di cui si servi Pier Canterino sia il poema francese o uua ver-
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E. LEVI
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sione in prosa di quello (1). Se non che alla composizione della
Bella Camilla non può ritenersi estraneo il ricordo della Re¬
gina d’Oricnte, che per la prima volta aveva raccolta tra noi
la vecchia leggenda francese. È evidente nel dozzinale canta¬
storie senese la velleità di gareggiare col Pucci ; molti partico¬
lari, da lui introdotti ad arte nel racconto, sono desunti dai
cantari pucciani, molti versi sono presi a prestito da quelli e
copiati alla lettera (2). Anche i nomi stessi dei luoghi e degli
eroi rivelano l'origine pucciana degli episodi: la rocca della
Spina (3), la valle Scura, ecc. La pazza Bacchibella, che è al
(1) Abbiamo di Buon de Bordeaux e dei relativi supplementi una ver¬
sione in prosa compiuta nel 1454 « à la requeste et prière de monseigneur
« Charles seigneur de Rochefort et de messire Hues de Longueval seigneur de
« Vaulx et de Pierre Ruotte » (M. Schweiuel, Op. cit., p. 2), tradotta alla
sua volta in inglese nella prima metà del sec. XVI. Lo studio delle propag¬
gini italiane fa apparire verosimile che esistesse una versione prosastica an¬
teriore a quella cosi fortunata del 1454.
(2) Il verso (I, VI, 2): « com’è usanza tra marito e moglie » è uguale a
quello della B. d'Or., Ili, 41, 8: « come tra moglie e marito è l’usanza ».
I vv. Vm, 7-8 :
preghiamo ancor la sua madre verace
che ci conduca con onore in pace.
ricordano quelli della Bellina , IV. 44, 6-7:
in vita eterna...
#
Alla qual ci conduca il Salvatore.
La prima ottava della Bella Camilla è in fondo la stessa, con qualche leg¬
gera variante, di quelle che il Pucci mise in fronte ai suoi due cantari di
Bruto e di Gismirante :
lo prego Cristo
che mi concieda grazia nella mente
ch'io posso chiara mia voluntA dire.
E prego voi, signori e buona gente,
ohe oon affetto mi dobbiate udire;
io vi dirò una storia novella.
Bruto).
(:l) B . Camilla , II, 5, 6 = B. d'Oriente, III, 50, 1.
Altissimo Signor,
couciede grazia al poco ch’io di-
[soerno
e alla mente mia acerba e dura
ohe ’l mio immaginar venga in effetto...
Tu se’ tanto benigno e grazioso
ch’io spero del mio dire aver vittoria
sì ch’a voi, Signor, col oor gioioso
vo' rinnovare una antica storia.
( B . Camilla).
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-U R B7WA--OHAM PAt§W—-
I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
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fianco di Cambragia, ha non pochi tratti di rassomiglianza con
donna Berta, che è al fianco della regina d’Oriente.
Insemina i rapporti reciproci delle tre scritture leggendarie
potrebbero schematicamente raffigurarsi cosi :
Me et
X
X
X
X
I
Olive
I
R. d’Oriente, III, 7-40.
\
\
\
\
\
\
\
\|
Ixi bella Camilla
%
Restano a spiegarsi le parti della Regina cl’Oriente che non
hanno riscontro in Huon de Bordeaux: il viaggio a Roma della
regina, il capriccio dell’imperatore, l’insidia dell'imperatrice e
la difesa disperata della donna (cant. t e 2). Siccome il Pucci ci
parla di un sol libro e non di molteplici fonti, bisogna ammet¬
tere che la contaminazione dei vari motivi leggendari fosse già
avvenuta in un romanzo antecedente, oppure che il « libro »,
al quale il Pucci si riferisce, fosse una vasta compilazione cao¬
tica di episodi meravigliosi tratti dalle varie opere dei trovèri.
Lo stesso si deve dire del singolare episodio della castellana
della Spina, di cui non so additare nella leggenda alcun riscontro
preciso, sebbene sia facile riconoscere la provenienza dei par¬
ticolari spicciolati e persino dei tratti incidentali (t). Quando
(1) Un altro riscontro leggendario, ma assai remoto, additò il Wrsselofskv,
Op. cit., p. 227. Quando la regina d’Oriente è avviluppata dai nemici, l’an¬
gelo le appare (II. 13-14):
e poi li disse: — To’ questa bacchetta;
fra tuoi nemici si la va a pittare,
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-HRBANA-CHAMPAIGN
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B. LEVI
il re d'Oriento cade prigioniero nella rocca della Spina, la ca¬
stellana gli dà a bere un beveraggio fatato ; egli si addormenta
e poi la scambia per la sua moglie diletta e la bacia sulla bocca
(Rei 7 . d’Or., Ili, 48-49). In modo simile, nel Parthenopeus de
BloiS , Parthenopeus, quando è ritornato a Blois, per un certo
vino propinatogli dalla madre, si scorda di Mélior e richiede di
follia la nipote del re di Francia:
... boit tant
qu’il en change tot son talent
plus esbaudit et plus favele,
dicendo: < Gite come fumo al vento! »
... l’alta reina a cavai fu montata,
feoesi il segno de la santa oroce
e contro e’ suoi nemici ne fa andata.
Quando fu presso a lor, molto feroce,
la bacchetta tra loro ebbe gittata...
e tutta quella gente si fuggia.
« Quella bacchetta portata dall’angelo è lo reyrs prote. di Odino, del quale
« si racconta la seguente storia: quando Erico di Svezia contendeva con Styr-
« biflrn alla battaglia di Tvriswall, quest’ultimò sacrificò a Thoro, ma il primo
« si votò a Odino, pregando il Dio di dargli vittoria, protestando contentarsi
« di dieci anni di vita se gli concedesse la sua domanda. Allora apparve un
« uomo di alta statura, avendo un largo cappello sulla testa ; quello donò ad
« Erico un fusto di canna, ammaestrando a gittarlo sopra l’esercito nemico
« colle parole: — Odino vi ha tutti. — Appena fatto questo, una lancia
« volò nell’aria al disopra dell’oste di Styrbiòrn e lo colpì di cecità prepa-
« rando così la sua strage. Il simile si canta nella Erybryygiasnga di Stein-
« thor: anche qui il dardo gittato sopra le teste dei nemici pare essere la
« lancia di Odino, che decideva della battaglia ». Il Wesselofsky ricorda anche
che i feciali romani dichiaravano la guerra gettando in terra nemica « hastam
ferratam sanguineam praeustam ». — « In ogni modo, romane o germaniche,
« le vecchie credenze popolari si sono perpetuate nei cantari del secolo XIV,
< che sarebbero tutti da studiarsi sotto questo punto di vista. Fossero le opere
« loro imitazioni e rifacimenti o semplicemente traduzioni dal francese, non
« bisogna dimenticare che i traduttori del Medio evo non erano quelli di og-
« gidì e spesso assunsero la parte dell’autore, introducendo nel concetta ori-
« ginale molto di loro proprio o proprio della nazione a cui appartenevano *.
Ecco perchè lo studio della leggenda mi pare non solo affascinante per quello
che ha di fantasioso e poetico, ma anche necessario per la storia del pensiero
e dell’arte della nazione.
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I CANTARI LKGGKNUART ITALIANI 139
fort est la poison et novele;
la damoisele a esgardée
et Mélior tote oubliée.
Sa mère entent à la parole
et à son seniblant qu’il afole;
tant le demaine la folie
qu’il la requiert de folie...
Quello che è più spiccatamente caratteristico nel romanzo del
Pucci è l’apparato orientale del racconto ; la magnificenza sfar¬
zosa di quella corte asiatica, la varietà dei colori, dei tipi, delle
vesti, l’intervento di potenze strane e contraffatte, quali i ba¬
roni di Maometto e le stregonerie e le malizie diaboliche di essi.
Forse la fantasia del poeta fu eccitata dalla lettura di qualche
relazione dei viaggiatori in Terrasanta e de’ palmieri, come po¬
trebbe essere il Libro d'oltremare di frate Niccolò da Poggi-
bonsi (1346). Ma io credo più probabile che il Pucci abbia ten¬
tato semplicemente di trasferire nel dominio della leggenda
quelle meravigliose descrizioni del misterioso oriente lontano,
che si leggono nel Milione di Marco Polo. Mi fa pensare al
Milione l’accusa esplicita che il papa e l’imperatore fanno alla
sultana d’Oriente di trasformare la corte in un luogo di delizie,
tra canti e balli giocondi, e di non credere ad altro paradiso,
che a questo paradiso terreno.
... se nel mondo avea alcun diletto
costei Cavea tutto al suo cospetto,
siccome s’erau canti di vantaggio
ed istrumenti d’ogni condizione,
con cento damigelle d’un paraggio
cantavan e sonavan per ragione.
EU’eran tanto belle nel visaggio
che agnoli pareau, non che persone...
e disse al papa: — In cotal parte regna
una che fa del mondo paradiso
e for di questa vita ogni altra sdegna... —
(2?. d'O., I. 4-8).
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K. LETI
È questa precisamente la descrizione che Marco Polo ci fa
della corte del Voglio della montagna e degli assassini e del
giardino mirabile ove erano « donzelli e donzelle, gli più belli
« del mondo e che meglio sapevano cantare e sonare e ballare;
« e faceva lo Veglio credere a costoro che quello era lo para¬
fe diso » ( 1 ).
E perciò il fece, perchè Malcometto disse che chi andasse in paradiso avrebbe
di belle femmine tante quante volesse e quivi troverebbe fiumi di latte e di
miele e di vino; e perciò lo fece simile a quello che avea detto Malcometto.
E gli saracini di quella contrada credevano veramente che quello fosse lo pa¬
radiso. [Gli giovani]... veramente si credevano essere in paradiso. E queste
donzelle sempre istavano con loro in canti e in grandi sollazzi.
Intorno alla ricca materia degli indussi del Milione sulla leg¬
genda assai ancora mi resterebbe da dire; ma qui io voglio
impormi il silenzio « e più lo ’ngegno ad’reno ch’io non soglio ».
XV.
Madonna Elena.
Questo cantare si riconnette con due motivi leggendari assai
ricchi e diffusi, con quello della « donna calunniata e persegui-
« tata », che ebbe nella nostra letteratura la consacrazione del¬
l’arte nell’episodio di Ariodante e Ginevra del l ’Orlando Furioso,
e con quello della « scommessa ».
Nel mese di maggio Carlomagno era solito di tenere corte
bandita. Durante una di queste feste ù proposto un vanto e cia¬
scuno dei baroni vanta le proprie ricchezze o la bellezza della
(1) M. Polo, Il Milione secondo il testo dello « Crusca » reintegrato con
gli altri codici italiani, a cura di D. Olivieri, Bari, 1912 ( Scritt. d'Italia,
voi. XXX), p. 36 e seg.
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
141
moglie o dèlia sorella (1); Ruggero di Mompellier naturalmente
si gloria di possedere la sposa più bella e più virtuosa di questo
mondo. E infatti non si conosceva allora dama più meravigliosa¬
mente bella di madonna Elena, figlia di Amerigo da Narbona (2).
Ma Guernieri (l’Oltremare, « falso e malvagio», non tollera il
vanto del buon Ruggero e dice di aver « aùto tutto il suo volere »
(1) A questi vanti accenna assai di frequente la leggenda medievale; cfr.
C. Nyrop, Storia dell'epopea francese eit., pp. 119-120. Nel lais di Graelent,
come si è visto, il re fa esporre nuda la regina su un palco e vanta le bel¬
lezze di lei a gara coi suoi baroni. T T n vanto simile si ha nel primo cantare
di Ltombruno:
40
E l'altro di si fece ritornare
in sa la sala i barou tutti quanti,
ed ordinò che ciascun si vantasse
e poscia il vanto innanzi Ini provasse.
41
Chi si vantava di bella mogliere
chi si vantava di bella magione
chi di cavai corrente e buon destriere,
chi di gentil sparviero o di falcone
chi di palazzi o di gran torri altiere
ohi si vantava di tal condizione...
Se non che le somiglianze precise, non solo di sostanza, ma anche delle parole
e delle rime, mi fanno dubitare che il cantastorie di Ltombruno abbia at¬
tinto direttamente proprio alle ott. IX-X di questo cantare:
e a ciascun fu mestier ohe si vantasse
poi convenia che ’l vanto provasse
IO
Chi si vantava di bella moglieri,
qual si vantava di bella sorella,
d’aver beU’arini e correnti destrieri
o ricco di cittade e di castella,
d’astor o bracchi o correnti levrieri,
o per amica aver bella donzella
e ohi si vanta d’oro e d’ariento
#
e chi d’esaer prod’uomo in torniamento.
(2) Amerigo di Narbona è uno dei personaggi del ciclo di leggende com¬
pendiate nel romanzo Le storie narbonesi. Cfr. L. Gaitier, Les Épopées fran-
paises 2 , IV, pp. 231 e segg.; Nyrop, Op. cit., p. 130. Un cantare del sec. XIV
è intitolato appunto « Americo di Narbona » (cod. Maglb. VII, 761).
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142
E. LEVI
da quella dama cosi virtuosa e si offre di darne le prove entro
un mese recando davanti a Carlomagno alcuni gioielli e un ve¬
lette di madonna Elena. Poi coi suoi cavalieri va ad armeggiare
sotto le finestre del castello di Gironda e con molte lusinghe ot¬
tiene da una cameriera non solo una compiuta descrizione delle
bellezze di madonna Elena e dei suoi figliuoletti Arnaldo e Giron¬
dino, e dei portentosi segreti del castello, ma anche un anello e
uno scheggiale argenteo della dama. Il perfido Guarnieri dà ad
intendere ai suoi baroni che quella donna, con la quale aveva
avuto quei misteriosi colloqui, fosse proprio madonna Elena e poi,
trionfante, arreca a Carlomagno tutte le gioie rubate dalla ca¬
meriera. Convinto da quelle prove del tradimento della sua sposa.
Buggero disperatamente chiede commiato a Carlomagno, cavalca
a briglia sciolta verso Gironda, entra nella città, vi uccide uo¬
mini e donne, uccide le guardie, uccide persino i suoi due figliuo¬
letti e getta dalla finestra madonna Elena. Ma Elena cade in
un fiume e per la miracolosa protezione di Gesù Cristo riesce
a guadagnare, sana e salva, la riva; subito invia un messaggero
al padre perchè con un esercito muova verso Parigi a trarre
vendetta di quei misfatti e, senza attendere scorta, ella stessa
accorre alla corte di Carlomagno. Quando Elena arriva, Buggero
sta per essere condotto a morte, secondo i patti del vanto. La
impavida donna si fa innanzi e olire airimperatore di provare
colle armi alla inano che Guarnieri è un traditore. Invano Guar¬
nieri oppone scuse e pretesti; egli deve prendere campo e di¬
fendersi dagli aspri colpi dell’eroina ; in pochi istanti egli è vinto
e abbattuto. Elena gli è colla spada alla gola; allora egli con¬
fessa il tradimento della cameriera e la sua calunnia. All’udire
quella confessione, Buggero, disperato per l’assassinio dei figli,
fugge come pazzo da Parigi. Ma Elena lo fa rintracciare, lo ri¬
conduce davanti all’imperatare e gli perdona.
L'argomento del cantare è press’a poco quello della novella IX
della seconda giornata del Decamerone , dove però gli avveni¬
menti sono trasferiti dal mondo cavalleresco in quello dei mer¬
canti. A Parigi, in una brigata di mercanti genovesi, Ainbrogiolo
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
143
ila Piacenza scommette di provare entro tre mesi che la moglie
di Bernabò Lomellino, della quale si vanta la virtù, è la sua
amante. Nascosto entro una cesta, riesce a penetrare nella stanza
ila letto della dama e poi, ritornato a Parigi descrive la casa,
le cose più intime e le bellezze del corpo di lei; sicché Bernabò
si dichiara vinto. Egli ritorna a Genova per fare uccidere la
moglie che ritiene infedele. Ma ella sfugge alla morte e dopo
molte avventure riesce a provare al marito il tradimento e la
calunnia di Ambrogiolo da Piacenza. Dalla novella boccaccesca
o almeno da alcuni episodi di essa deriva il più celebre degli
svolgimenti artistici del vecchio motivo leggendario, la roman¬
zesca e fantasiosa tragedia di Cymbeline di Shakespeare (1).
Un altro riscontro della versione poetica italiana della leggenda
può additarsi nel grazioso ed elegante romanzo della Violetta ,
che fu composto nel primo trentennio del sec. XIII (2). Pu¬
tì) Cfr. R. Oh le, Shakespeare's Cymbelyne and seine romanischcn Vor¬
lati fer, Berlin, 1890.
(2) Roman de la Violette ou de Gerard de Nevers, en vers, du XIII®
siècle, par Gibert de Montrevil, publié pour la première fois d’après deux
luss. de la Bibl. Royale par Francis Michel, Paris, 1834. — Se ne fece una
traduzione tedesca pubblicata nella Sammlung Romani ischer Dichtungen des
Mittelalters, hgg. von Friedrich Schlegel, Leipzig, 1804. Dal romanzo di Gi¬
berto di Montreuil è pure tratto il celebre melodramma di Weber, Eurianthe
(1824). — Intorno all’origine del romanzo della Violetta, cfr. A. Rochs, Veber
den Veilchenroman und d. Wandenmg d. Euriantesage, Halle, 1882;
Docglas Labarkkk Bofptm, Le roman de la Violette, a Studi/ of thè Manu-
Scripts and thè originai Dvdect, Baltimore, Furst, 1904; Idem, The source
of thè roman de la Violette, nella Romanie Revieic, voi. IV (1913), pa¬
gine 472-478. Secondo il Boflum la fonte del Roman de la V'iolette (scritto
tra il 1225 e il 1250) sarebbe la prima parte (vv. 1-1229) del romanzo del
Comte de Poitiers. Il Comte de Poitiers è un racconto crudo, truce, vio¬
lento, composto evidentemente per una società primitiva. Le più notevoli va¬
rietà che il romanzo della Violetta presenta rispetto al Comte de Poitiers,
sono il segno di riconoscimento dell’eroina (il fiore), il titolo, che trae origine
appunto da quel fiore, e la frequente citazione di canzonette a ballo; per
questi caratteri la Violette si riallaccia al Roman de la Rose ou de Guil¬
laume de Dole (p. d’apròs le ms. du Vatican p. G. Servois, Société des A. T. F.,
1893). Il romanzo della Rose fu composto verso il 1200. Insomma il Boffum
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144
E. LEVI
rante una festa, il conte di Nevers vanta le bellezze e le virtù
della sua hi e le arnie Euriante di Savoia. Liziart, conte di Forez,
lo contraddice e allora si propone che se egli entro otto giorni
riuscirà a sedurre Euriante, otterrà la contea di Nevers, se in¬
vece fallirà nei suoi tentativi, dovrà cedere al competitore la
contea di Forest. Goll’aiuto di una vecchia, Liziart riesce a ve¬
dere, attraverso un forellino, Euriante nel bagno, e nota che
ella ha un neo, una violetta « desor sa destre inainelete ». Forte
di questa scoperta, Liziart ritorna alla corte ed è dichiarato
vincitore del vanto; Gerardo come Ruggieri nel cantare, vuole
uccidere Euriante, ma alla fine, dopo infinite avventure, T in¬
nocenza di lei si rivela in tutta la sua fulgidezza e il perfido
calunniatore deve confessare, morendo, il suo delitto.
Nel Quattrocento la novella della « scommessa » fu narrata
in prosa da Feliciano Antiquario in un lungo racconto intito¬
lato Ju$ta Victoria (t). L’argomento essenziale è lo stesso del
cantare di M. Elena; ma vi sono delle profonde varianti nei
particolari: la più notevole si è che qui la donna calunniata è
sorella, non moglie del protagonista. Naturalmente questo dram¬
matico motivo leggendario non può mancare nella tradizione
popolare; e infatti ne abbiamo parecchie versioni, ina non molto
antiche, nelle fiabe e nelle novellette toscane e siciliane (2).
11 motivo della «donna perseguitata» e della «scommessa» è
cosi ricco, che i riscontri potrebbero moltiplicarsi infinitamente.
ribadisca il penetrante giudizio del Paris, secondo il quale il poemetto più
breve, il C. de Poitiers, « est une oeuvre singulière, pieine de charme et de
« bizarrerie, barbare et rude * e invece la redazione più diffusa, la Violette,
« est une murre raftinée, un roman mondain, un roman à la mode, avec tout
« ce que le mot comporte de qualités et de défauts ».
(1) La novella di Justa Victoria fu pubblicata di sul codice autografo
Riccard. 1459 da G. Pacasti, Catalogo dei novellieri dal. in prosa, Livorno,
1871, voi. II, p. 1.
(2) La novella toscana del Sigtior Giovanni e quelle siciliane: Ervahianca ,
Iai re di Spagna, La stivala furono indicate e analizzate da O. Taroioni-
Tozzetti, Cantare di Madonna Eletta imperatrice, Livorno, 1880 (nozze
Soria-Vitali), pp. 22-28.
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
145
Ma è inutile ogni altro apparato d’erudiziono poiché la leggenda
è già stata minuziosamente studiata, nei suoi atteggiamenti e
nel suo svolgimento attraverso i secoli, da Gaston Paris (i).
La forma primitiva del mito deve essere quel racconto bru¬
tale, violento e sanguinoso, che più degli altri rispecchia i sen¬
timenti e le idee d’un’umanità inferiore e selvaggia : due uomini
fanno una scommessa intorno alla virtù d'una donna, che è la
sorella di uno di essi ; l’uno crede di averla sedotta e in segno
della sua vittoria annuncia di averla mutilata ; ma la donna si
era fatta sostituire nel letto profanato da una ancella e mo¬
strando intatto il dito o la mano o il braccio, che il seduttore
aveva detto di aver mutilati, lo confonde e lo convince. I testi
più cospicui di questa selvaggia leggenda sono un poema bizan¬
tino, una novella gallese del secolo XIII, un poemetto tedesco
del XIII secolo, tradotto da un originale francese da Ruprecht
di Wùrzburg, I due mercanti di Verdun , e una commedia
composta a Norimberga da Jakob Ayrer, Von ztceyen fiirst-
lichen Rdthen. Il Paris crede che questo mito sia venuto al¬
l’Europa dal più lontano Oriente, perché esso presuppone una
società umana sprezzante dei legami famigliali e della santità
dello leggi del sangue. La donna intorno alla quale si accende
la disputa, é la sorella d'uno dei contendenti, non la sposa, conm
raccontano le forme poetiche a noi più vicine. E la donna si
sottrae alla seduzione sostituendo a sé stessa una serva. Questa
sostituzione, che nega ogni valore di umanità all’ ancella, la
quale viene a cuor leggero abbrutita e disonorata nel letto non
suo, non può essere stata immaginata che nei tempi, in cui la
(1) G. Paris, Le cycle de la • Gageure », nella Romania, XXXII, pa¬
gine 481 e segg. Sono lezioni tenute al Collège de France, trascritte e rior¬
dinate da J. Bédier. Il Paris aveva prima pubblicato una parte di quel la¬
voro col titolo: Le conte de la Gageure dam Boccaee, nella Miscellanea
di studi critici, ed. in onore di Arturo Graf, Bergamo, 1903, pp. 107-116.
In qualche parte del mirabile lavoro si avverte qualche incertezza, che forse
ulteriori meditazioni avrebbero dissipata.
Giornale storico — Sappi, a® 10
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14<> X . LIVI
servitù limitava ad alcune classi privilegiate . persino l’onore
femminile. Nel medio evo il culto e il rispetto della donna erano
cx>si vivi ed era cosi vivo il concetto dell’ uguaglianza fonda-
mentale degli uomini, che un tale racconto sarebbe sembrato
assurdo. Per questa ragione i tratti più brutali e crudeli di quel
mito barbarico vennero raddolciti e mutati. Alla sorella si so-
9
stituì la moglie d’uno dei contendenti e alla mutilazione di
quell’ infelice si sostituì, come prova della seduzione, l’indica¬
zione da parte del seduttore di qualche segno materiale di ri¬
conoscimento, un neo, una macchia, qualche gioiello. E con ciò
si venne a risparmiare quel barbaro e raccapricciante spargi¬
mento di sangue. Cosi potato e rassettato* l’albero prodigioso
della leggenda ebbe una vita così intensa e robusta che i rami
divennero una selva folta, impenetrabile, intricata ; nè sempre
riesce al nostro pensiero di rimettervi l’ordine. Il Paris distingue
tre gl andi classi. Luna (/t) è quella selvaggia e barbarica che
ha a fondamento la sostituzione dell’ancella e la mutilazione di
essa. La seconda ( B ), che è la più ricca di varianti, ha sempre
per dato comune la mala fede del presunto seduttore, il quale
vanta di aver posseduto l’eroina, pur sapendo di asserire cosa
non vera. Nella terza (C) l’eroina non ha parte alcuna nel
riconoscimento della sua innocenza. È il caso, che con una
serie di avvenimenti imprevisti si incarica di vendicare la verità
sulla menzogna e di strappare al reo la confessione dei suoi
delitti.
Al gruppo B si riattaccano infinite « sottoclassi ». Nell’una,
probabilmente di origine francese, non si ha più la sfida, che
dianzi iniziava il racconto ; ne sono testi memorabili il Roman
de la Rose ou de Guillaume de Dole (1199-1201) e la com¬
media Eufemia di Lope de Rueda.
Un altro tipo di novelle è quello delle tradizioni popolari ita¬
liane, delle fiabe siciliane dei Due figli del principe di Mon-
leleone, della Stivala , di Ervabianca , della nov. Justa Victoria
di Feliciano Antiquario e della Pianella di Domenico Batacchi.
Qui si ha sempre la sfida iniziale ; ma la donna, che è la §o-
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
147
rella d’uno dei due contendenti, per dimostrare la menzogna del
millantatore presenta al re un oggetto che fa il paio con un
altro recato dal suo nemico, un guanto, una pantofola, una pia¬
nella, e accusa di furto il mentitore. Questa invenzione dell’og¬
getto « depareillé » è inutile e deve essere stata fatta una sol
volta, sicché riesce relativamente facile ricostruire la storia e
la vicenda di questo mito fantastico. Esso appare di fattura schiet¬
tamente italiana.
La novella del Boccaccio (Decani., II, 9) non si riconnette nè
con quelle novelle popolari italiane, nè col cantare di M. Elena,
ma forma un gruppo a parte con un’altra novella italiana ano¬
nima del Trecento e con una novella pur italiana perduta, di
cui si ha una versione tedesca stampata a Norimberga nel 1489,
e con una parte dell’intreccio dello shakespeariano Cyrabeline.
L’originale deve essere una novella italiana del secolo XIII, po¬
steriore al 1252.
Un posto a parte, nella storia del gruppo B , occupa il can¬
tare di M. Elena , che ha dei tratti caratteristici, che non di¬
vide con alcun altro racconto affine : la donna calunniata, da
sola, rivendica il suo buon diritto, si presenta alla corte del re,
che era stato testimone della stida, e atterra nel torneo il suo
vile calunniatore.
Hanno qualche somiglianza con M. Elena, per la virile energia
dell’eroina e per qualche altro carattere, un gruppo di novelle
russe ed ebraico-tedesche e un altro gruppo, al quale appar¬
tiene il « miracolo » di Ot/ion voi d'Espagne composto a Parigi
verso il 1380, e il romanzo piccardo-vallone in prosa, del sec. XIII,
Le voi Floire et la belle Jehanne.
1 due romanzi del Corate de Poitìers e della Violetta costi¬
tuiscono da soli l’ultima delle famiglie (C) della leggenda. In
essi, a differenza di quel che avviene negli altri racconti, la
donna non partecipa per nulla all’azione. È la fortuna che ne
prova l’innocenza, è il marito che sfida il traditore e ne affretta
il castigo.
Insomma, attraverso la selva dei miti e delle creazioni fau-
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148
E. LEVI
tastiche dell’Europa, noi assistiamo alla lenta purificazione di
quel motivo barbaro e selvaggio della donna mutilata e violata.
La novella, che trae l'ispirazione dal dispregio della femmina,
giunge alla glorificazione della donna casta e virtuosa, che con
eroica fermezza supera le vicende della vita e vince le crudeli
prove del destino. Ed è una lezione di umanità, che ci viene su
dal profondo dei secoli.
Il cantare è conservato da due codici del Quattrocento ( t ),
ma appartiene senza dubbio al più puro Trecento. Una prova
positiva della sua antichità si ha nelle ott. 9-tO, che sono certa¬
mente — come si è visto — la fonte delle ott. 40-41 di Liom-
bruno.
I nomi francesi o provenzali degli eroi dell'avventura, Guar-
nieri, Amerigo di Narbona, Arnaldo, Girondino, fanno credere
al Paris che il cantare abbia a fondamento un originale fran¬
cese o provenzale, che oggi noi non conosciamo più. Ma po¬
trebbe anche darsi che il cantastorie nostrano, che doveva ben
conoscere il ciclo epico narbonese, abbia volutamente trasferita
l’azione dal mondo borghese o dall’ambiente orientale nel mondo
cavalleresco provenzale, per dare un colore locale più inte¬
ressante e più vivace alla sua creazione e per imitare i romanzi
di cavalleria, che avevano tanta fortuna in mezzo al pubblico.
Si noti che nei codici il cantare ha il titolo di Madonna Efena
imperatrice, mentre di imperatrici e di imperi non è parola
nelle ottave che seguono. Quel titolo fu messo in fronte al can-
»
tare semplicemente perchè una delle leggende più diffuse era
appunto quella di Sant' Elena imperatrice. Elena, già ebbe a
notare il Paris, « est appelèe mècaniquement imperatrice à
cause de Sainte Hélène, toujours ainsi qualifiée » (2).
(1) Cod. CLX della Bibliot. Comun. di Perugia; cod. Moreniano-Bigazzi,
CCXIII, c. 136.
(2) G. Paris, Le cycle de la « Gageure », cit., p. 526 n. Uno dei libri po¬
polari italiani più diffusi (ne conosco una ventina di edizioni) è la « Leg-
« genda di S. Elena imperatrice, madre di Costantino imperatore, nella quale
« si dichiara come Ella ritrovò la Croce di N. S. Gesù Cristo », ecc.
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
149
XVI.
Cerbino
L’argomento del cantare di Cerbino è quello stesso nella nov. 4
della quarta giornata del Lecamerone. Cerbino, nipote di Gu¬
glielmo II re di Sicilia, si innamora per fama di Elena, figlia del
re di Tunisi, e le manda doni e messaggi; ma ella viene fi-
danzata al re di Granata e imbarcata su una nave per essere
condotta nel nuovo regno e nella nuova casa. Ben conoscendo
l’amore di Cerbino per Elena e temendo qualche violenza da
parte di lui, il re di Tunisi ottiene da Gugliemo II sicurtà per
le inermi navi nuziali. Cerbino, disperato per la sua disavven¬
tura, si apposta con alcune galee corsare presso la Sardegna per
liberare la sua innamorata. Ma l’equipaggio della nave saracena,
vistosi sopraffatto dall’impeto dei marinai messinesi di Cerbino,
piuttosto che cedere al nemico si bella e preziosa preda, uccide
la sventurata Elena in presenza di Cerbino. Inutile dire il furore
del principe innamorato! Neppure uno dei crudeli nemici sfuggì
alla sua spada. Ma il re di Tunisi mandò subito un’ambasceria al
re Guglielmo di Sicilia per lamentare raffronto e chiedere la con¬
danna del colpevole. Il vecchio Sovrano di Palermo, per mante¬
nere la parola data e la sicurtà promessa, fu costretto a con¬
dannare a morte il nipote Cerbino.
La tragica storia d’amore è uno svolgimento leggendario d'uu
fiitto realmente avvenuto o almeno raccontato come tale da Ro¬
berto, abate del monastero del Monte S. Michele in Normandia
(n. 1110 circa; m. 1186), nella continuazione alla Cronaca di Si-
geberto di Gemblours (1):
(1) Roberti de Monte, Cronaca, ed. L. C. Betlimann in Monuni. Gemi.
Hist., Scriptorex, voi. VI, p. 528. — M. Amari, Storia dei Musulmani di
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150
E. LEVI
[Anno 1174] — Rex Marroc, in cuius potentato est tota Affrica et etiam
Sarraceni, qni sant in Hispania, inittebat tiliam suam ut quidam Rei Sarra-
cenorum duceret eam in niorein. Quam stolus et galee regis Siciliae interve-
nernnt et adduxemnt ad dominain suum ; ande rex. letas, pacificata» est
cam patre eius, illa reddita; et pater eius reddidit regi Siciliae duas ci vi¬
tate», scilicet Affli cam et Sibiliam, quam Sarraceni abstulerant Willermo, regi
Siciliae, patri istius regie.
L’antichità della cronaca attesta che se la tragica storia non
è vera, almeno era largamente diffusa e accolta per vera nel se¬
colo XII. Al racconto del monaco non manca altro che l’amore
di Gerbino e di Elena perchè sia ormai già compiuta, in ogni suo
elemento essenziale, la leggenda novellistica, che il Boccaccio
volle incastonare nella collana del Decamerone. Secondo il Boc¬
caccio e .secondo il Cantare rii Cerbino la genealogia dei Nor¬
manni di Sicilia e del protagonista della novella è sconvolta e
trasfigurata: Cerbino ivi è detto figlio di un Ruggero, premorto
al padre, Guglielmo il malo, e alla sorella Costanza. Ma Costanza
fu in realtà zia e non sorella di Ruggero. L'errore del cantare
e del Decamerone è riprodotto anche nel profilo di Costanza,
che è nel De Claris mulieribns (t).
Non so se nel secolo XIII il nome di Cerbino già fosse asso¬
ciato al ricordo della leggenda normanna. Certo quel nome è
diffuso anche in Toscana ai primi albori del Trecento (2), e in
Sicilia, voi. Ili, P. II, Firenze, 1872, p. 516, nega fede al racconto del monaco
del Monte S. Michele: « Se meritasse piena fede Roberto, abbate del Monte
« a S. Michele, si direbbe che Abn Jakfìb fu vinto dalla cortesia del re Gu-
« glieimo, il quale gli aveva rimandata libera una sua figliuola, presa dal-
• l’armata siciliana sopra un legno almohade, che la conduceva sposa a un
« re saraceno. Ma il fine del racconto scema autorità al coniinciamento, por-
« tando che l’Ahnohade alla sua volta restituisse al re di Sicilia le due città
• di Affrica e Zawila; il che non fu, nè poteva essere *.
(1) Cfr. per tutto ciò M. Landau, iJie Quelita de» Dekmntron, Stuttgart,
1884, pp. 327-830.
(2) Un « Cerbinus filius Tencini », pel quale si resero mallevadori Dante
e il fratello Francesco, è citato in documenti fiorentini del 31 marzo 1300 e
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URBANA-CHAMPAlGbl
1 CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
151
Lombardia già entra a far parte del repertorio poetico d'uu cu¬
rioso giullare e cantastorie, Zaffarino (1). Tra gli allegri compa¬
gnoni che si radunano intorno al focolare di Zaffirino è citato,
nel curioso « bischigo» 0 della cà!, anche « il bon Gierbino »;
e quello stesso « ver Zerbino », tristo compare di madonna Ma-
lanconia, è ricordato nel Testamento o Stentamento di Zaf¬
farino :
119 Ancuora lassa a dona Malanconia
sua comare, e a suo cui pare,
il ver Zerbino, lo molino...
Nel 1787 Mario Pagano trasse dalla leggendaria avventura di
Gerbino una sua truce e raccapricciante tragedia, Il Cerbino (2).
Giovanni Lami, che attribuiva il cantare al secolo XIV, du¬
bitava che esso potesse essere una delle fonti della novella del
Decamerone. « Questa novella si trova in ottava rima, opera
« (per quanto pare) d’un poeta toscano ignoto, il quale può es-
« sere del secolo XIV, e non solamente si trova in rima, ma
«ancora data alla luce colle stampe nel seguente secolo, per
« quanto però si può giudicare dairimpressione, poiché nou vi
del 2 marzo 1801; cfr. S. Debkskdktti, Un nuovo documento di Dante e
di Francesco Alighieri, in Bullett. della Società Dantesca italiana, N. 8.,
voi. XIV, p. 127.
(1) Cfr. E. Levi, Zaffarino e le sue nozze con Monna Povertà, nel Bal¬
lettino critico di cose francescane, 1909, voi. Ili, pp. 3-14.
(2) L’argomento pare tratto dal Boccaccio, ma è svolto assai liberamente
ed è profondamente mutato. Elena, che qui è chiamata Erbele, non viene
uccisa, ma tratta su una nave corsara a Granata ; anche Gerbino sfugge alla
morte e cade prigioniero del re di Granata, Osmida. Osmida condanna a
morte Gerbino, ma poi, per un impulso di tardiva generosità, fa fermare la
mano del carnefice e stabilisce di non opporsi più alle nozze dei due amanti,
Gerbino ed Erbele ; ma Erbele, disperata per il supplizio del suo fidanzato,
ormai ha già bevuto il veleno e muore. Cfr. Il Gerbino, tragedia e VAga¬
mennone, monodramma-lirico dell’avvocato Francesco Mario Pagano, eco.,
Napoli, MDCCLXXXVII, presso i fratelli Raimondi; D. Cassino, Il teatro
di F. M. Pagano e la critica di P. Napoli-Signorelli, Napoli, 1907.
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152
B. LEVI
« è data di anno, nè nome di luogo o stampatore » (1). 11 Lami
osserva che nel cantare il Boccaccio non è mai nominato, come
invece certamente si sarebbe fatto se esso fosse posteriore al
Incamerane , e che lo svolgimento dell’azione è cosi ampio e
avviluppato che non può credersi un rimaneggiamento della
novella boccaccesca. Ma dopo le acute osservazioni di Luciano
Scarabelli (2) nessuno può attenersi all'opinione, cosi incerta¬
mente e debolmente suffragata dai fatti, del vecchio erudito
fiorentino. Lo stile e il verso del cantare sono lontanissimi
dalla ingenua freschezza dei tempi del Boccaccio e il lusso
degli ornamenti retorici tradisce l'arte di un ri maneggiatore,
non s’accorda con quella, di solito semplice e schietta, (l'un
inventore. « Ciò che poi condanna l’altrui giudizio è la st. LUI,
« nella quale sono i versi: Arme , scoppietti e priete rint
« narano Che fanno e' legni in su l'acqua tremare. Scoj>-
« pietii al tempo del Boccaccio non erano, se v'erano schioppi ;
« e quegli schioppi erano si grossi che stavano a posta. Uno,
« al tempo della peste, descritto dal Boccaccio, era a difendere
« la testo del ponte sul Po a Torino; uno al castello di Frassi-
« neto, puro sul Po. Prima che tale arma fosse ridotta maneg-
« gevole, passò di gran tempo e fu per le campagne e le città ;
« altro tempo passò avanti che si maneggiasse sulle navi, e navi
« di quelle condotte da Cerbino. Nè mi si venga a dire che per
« scoppietto può intendersi come nel c. LVIII del Mm'gante
« la ‘ balestra ’, perchè il verso parla di ‘ rintonamento ’ che fa
« ‘ tremare i legni sull’acqua ’. La balestra non fa fracasso e il
(1) Novelle letterarie, pubblicate in Firenze l’anno MDCCLV, tomo XVI,
col. 161 e seg#.; l’articolo è poi ristampato in [G. Lami], Appendice all'II-
l un trazione istorica del Boccaccio scritta da lì. M. Manni, Milano, 1820,
pp. 32-36. Intorno alle stampe di Cerbino cfr. il Fiore di leggende cit.,
p. 380 e seg. Non se ne conoscono manoscritti; un’edizione è della fine del
Quattrocento, un’ altra « forse del 1502 » (Molisi, Operette bibliografiche,
Firenze, 1858, p. 184). Se ne ha una ristampa, anonima, ma curata da Teod.
bandoni, nella Scelta di curiosità letter., disp. XXV.
(2) L. Scara belli, La novella di Cerbino, nel Borghini, a. II, p. 236.
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‘ URBANAtCRAMPARjNT
I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
153
« volar dello strale fischia nell’aria, ma lieve. E li nel verso è
«tutta gran cosa di rintuono: arme, scoppietti e prie te ». An¬
ziché della prima metà del Trecento, il cantare per la lingua,
lo stile, l’ottava si rivela opera dell’estremo Quattrocento; anzi,
molti hanno voluto riconoscervi il fare del dicitore fiorentino
Cristoforo, detto l’Altissimo, autore del Primo libro dei Reali
in ottava rima e celebre improvvisatore in sulla piazza di
S. Martino (1). Nè l’attribuzione è avventata. Basta scorrere il
cantare per trovarvi a colpo d'occhio le mode e i vezzi cari alla
poesia raffinata di quei precoci secentisti del Quattrocento (2);
i paradossali contrapposti petrarcheschi, come Vardere e assi¬
derare del cuore (LXX, 8), le tirate retoriche, i giuochi di pa¬
rola, fatti sul modello di quelli di Serafino Aquilano, come il
seguente (XCV, 1):
Amore amaro, oh lasso!, i 1 moro, i" m'ero...
L’invocazione alle Muse (I, 1), le fitte citazioni di favole mi¬
tologiche rivelano una penna posteriore non antecedente all'uma¬
nesimo, mentre la spezzatura del verso, il goffo giro della frase
danno al cantare l’impronta ben chiara della mano dell'Altis¬
simo. Le enumerazioni di amanti celebri (XXXIV-XXXV), che
pullulano nel Certi ino , sono frequenti nei Reali , frequentissime
negli Strambotti ; le uggiosissime infilate di parole coordinate,
come, per es., nell’ott. LXXVIII:
... grotte, selve, boschi, monti, piani,
e fiumi ed acqua e terra e rena e sassi,
poggi, piagge, padul, burron, pantani,
(1) Visse negli ultimi due decenni del Quattrocento e nei primi del Cin¬
quecento; cfr. G. M. Mazzcchelli, Gli scrittori (l'Italia, Brescia, 1743, voi. I,
pag. 539.
(2) Un « secentista precoce » è definito l'Altissimo da R. Renier, Stram-
trotti e sonetti dell'Altissimo (Rarità bibliografiche e scritti inediti, voi. II),
Torino, 1886, p. xliv.
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-UftBANA-CHAMPAIGN
154
E. LEVI
balze, campi, caverne, scogli e massi,
luoghi deserti, ombrosi, alpestri, strani,
sugher, castagni, querce, aceri...
ricordano quelle consimili degli Strambotti. Eccone, per es., una
identica (strami). XI):
perdo e" passi, el servir, l'amor, la voce
animo, stato, onor, carne, ossa, nervi
et sol mi resta per amarti al fine
pianti, sospiri, ardor, morte, mine (1).
Anche la rima falsa Eco: stecco , che deriva da un partico¬
lare difetto di pronuncia (ott. LXXX). si trova tal quale in uno
strambotto deirAltissimo (2).
Non vi può dunque essere dubbio sulla paternità e sulla data
del Cerbino. lo ho creduto bone di includerlo nel Fiore di leg¬
gende [XIIJ per dare un'idea delle opero, che si cantavano iti
S. Martino a distanza di tanti decenni dal primo fiore della
nostra leggenda, e uua prova della robusta vitalità della poesia
tradizionale anche in pieno Rinascimento. Nell'opera dell’Altis¬
simo, dove abbiamo sorpreso tanti accenti classicheggianti, tanti
echi petrarcheschi e della lirica cortigiana del Quattrocento,
sono ancora ben forti e vive le tracce delle forme auticlie della
poesia leggendaria. Le eleganze erudite dànno di gomito alle
rozze ingenuità della lirica paesana.
Leggendo, per esempio, nell’ott. LXXXV, i vv. :
Amor ... m’accenna
... ch’io debba la storia seguitare
per dare esempio a chi seguita Amore.
tornano subito alla memoria quelli della Donna de! Vergiù (I):
(1) St. XI dell’ediz. cit. Renier.
(2) Str. VII (ediz. Renier, p. vi).
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UH B ATJ A-L RAMPAI
I CANTARI LEGGENDARI ITALIA*
155
0 gloriosa, o vergine pulzella,
i' vo’ la grazia tua addimandare
e dire ’n riina una storia novella
per dare esse in pio a chi intende d'amare.
E la sorpresa si accresce, quando nudiamo ai tempi del Bo-
jardo e dell’Ariosto, squillare ancora, come sul bronzo d’una
campana secolare, il rude verso della Donna del Vergili (LXVI):
e partille la testa dallo ’mbusto
il magnanimo duca, dritto e giusto!
nell'ott. XCVI del cantare di Cerbino :
el giustiziere un colpo con tempesta
menò...
e dallo ’mbusto gli levò la testa!
La vecchia leggenda ha la vita tenace e non vuole ancora
morire.
XVII.
Conclusione.
JjASHt alle Vòlker untar gleicliem Kimmel
Sich gleioher Gabe wohlgemuth erfreuen.
Goethe.
I<e numerose edizioni spicciolate dei cantari, che vennero in
luce tra il 1860 e il 1880, non avevano altra pretesa che di for¬
nire dei « testi di lingua », cioè dei repertori di fidasi e di pa¬
role antiche. Lo studio dell’antica letteratura era puramente
esteriore e formale, animato da uno spirito critico fatuo e cieco.
« Si ricordi chi legge — scriveva uno di quei filologi — che in
« autore di questa fatta sono da valutarsi le parole assai meglio
« che le cose ».
Mossi dal preconcetto che i testi antichi dovessero servirò
di esempio agli scrittori moderni e che la lingua del Trecento
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- tffi B AW# CHAMPAIGN
156
E. LEVI
fosse «aurea» (quasi che il valore (l'un libro dipendesse dal
tempo in cui fu composto e non dall’ingegno dello scrittore),
quegli uomini si rallegravano delle parole oscure e rare, delle
frasi sfuggite alla Crusca, dei costrutti contorti e sbilenchi che
incontravano. Insomma essi amavano nella letteratura antica
tutto quello che essa contiene di morto e di sorpassato e non
prestavano attenzione a quello che i libri antichi recano di ve¬
ramente e profondamente importante, cioè la traccia delle leg¬
gende, dei sogni e dei miti che popolarono per tanti secoli la
fantasia degli uomini. I filologi che andavano in visibilio da¬
vanti ai più deliziosi spropositi della parlata volgare, che si inte¬
nerivano di fronte alle parole, ignorando la letteratura medie¬
vale che sta dietro ai cantari, si dovevano adattare alla necessità
umiliante di non comprendere quei testi che ammiravano con
tanta ingenuità.
L’importanza dei cantari consiste, più che nell’arte con cui
furono composti, nella loro materia: la leggenda. Perciò, fran¬
tumando quella letteratura in molte edizioni spicciolate, gli an¬
tichi studiosi ne distrussero o almeno ne scemarono grande¬
mente il valore, mentre ricomponendo i cantari nella loro serie,
come ho tentato di fare nel Fiore di leggende , si rende loro
la luce necessaria e l’importanza originale. Quando ai cantari
leggendari saranno aggiunti i cantari ciclici, i cantari classici
e i cantari religiosi, noi potremo dire d’avere sott'occhio, in
un corpus gigantesco ed armonico, tutto il tesoro fantastico del
popolo italiano; ricordi, miti, leggende, visioni, tradizioni, odi
ed affetti secolari.
La pubblicazione del Fiore di leggende servirà a dimostrare
che il popolo italiano non è stato per nulla estraneo all'elabo¬
razione della leggenda medievale, come si asserisce tanto spesso.
La leggenda, come ogni altra forma del pensiero medievale,
è cosmopolita e non conosce limiti di razza e di nazione. Del
resto è assurdo parlare di letterature nazionali e dei caratteri
etnici delle varie letterature durante il medio evo, cioè in tempo
in cui lo spirito di nazionalità non era ancor sorto ed era an-
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
157
cora cosi incerto o fluttuante lo spirito di razza. Già lo disse,
e in versi assai belli, Augusto Guglielmo Schlegel (1):
Eins war Europa in den prossen Zeiten
Ein V'aterland, dess Boden hehr entsprossen,
Was Edle kann in Tod und Leben leiten,
Ein Ritterthum scimi’ Kàmpfer zu Genoesen
Fur Einen Glauben wollten alle streiten,
Die Herzen waren Einer Lieb erschlossen ;
Da war auch Eine Poesie erklungen,
In Eineni Sinn, nun in verschiednen Zungen.
« Una poesia sola in diverse favelle ». Contribuiscono alla for¬
mazione di quella poesia la fantasia orientale, il romanzo bizan¬
tino, il ricordo delle epopee nazionali, il vasto sbriciolarsi del
mondo classico e il ricomporsi di quei frammenti in mille im¬
previste e bizzarre maniere. La poesia del medio evo è come
una di quelle bizzarre cattedrali romaniche, che furono costruite
sulle rovine dei templi pagani, con le spoglie delle divinità spo¬
destate, coi capitelli e colle colonne abbattute, con fregi e bas¬
sorilievi provenienti da mille altri edifici diversi. Noi ricono¬
sciamo benissimo la forma e l’arte di ciascuno di quei frammenti
classici ; ma la linea dell’ edificio, che ne risulta, è nuova, ù
strana, è fantasticamente bizzarra.
La leggenda del medio evo è un mondo fantastico iu forma¬
zione. Crollano e si sbriciolano i miti pagani, le parabole giu¬
daiche, le vecchie epopee nazionali e nel vasto polverio di quella
rovina si ricercano, si adattano e si compongono insieme i di¬
versi elementi della poesia europea.
Soltanto assai più tardi, solamente uel periodo romantico,
quando le giovani nazioni si compiacquero di vedere rispec¬
chiati nell’arte i caratteri del loro genio tradizionale e afler-
(1) A. W. Schlegel, Pref&z. ai Blumenstraiissc ItaUiinischer, Spanischer
unti Portugiesischer Poesie, Berlin, 1804, pp. 226-7.
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158
K. LEVI
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mati, persino nei tempi più lontani, i segni della loro indivi¬
dualità, allora soltanto dal grande fondo comune della poesia
medievale, immenso e caotico tesoro, si cercò a gara di discer¬
nere quanto fosse esclusivo degli uni o degli altri, dei franchi
o dei sassoni, degli iberi, dei celti o dei germani. Da quella
brama di scoprire le origini nazionali e di impadronirsi con
avidità del retaggio degli avi furono spiuti innanzi gli studi
sulle letterature germaniche medievali e sulle letterature ro¬
manze (1). Nè quell’ardore animò soltanto filologi ed eruditi.
Anche l'arte ne ebbe fremiti ed entusiasmi nuovi. Herder rac¬
colse le ballate scozzesi, Walter Scott ridiede vita al medio evo
sassone e normanno, Tennyson ricantò le leggende tradizionali
inglesi, Uhland e Fouqué quelle germaniche, mentre Victor
Hugo porgeva l'orecchio aH’eco della storia e della leggenda che
gli veniva dal fondo dei secoli.
Mentre Oltralpe così si dividevano le spoglie e i territori
dell’eredità medievale, l’Italia rimaneva indifferente e inattiva.
1 nostri romantici, imitatori per pigrizia e forse per ignoranza,
in luogo di risalire subito alle origini della nostra letteratura,
e di rivendicare la parte nostra in quel comune retaggio della
(1) Cfr. Gf.rthld Riohert, Die Anfànge der romanischen Philologie und
die deutsche Romantik, Halle, 1914. — Gli studi sulla leggenda medievale
sono in Italia, durante le scalmane e le baruffe romantiche, quanto mai po¬
veri e superficiali. Quel poco che si fece, lo si fece per chiarire l’epopea ca¬
valleresca del Boiardo e dell’Ariosto, cioè mirando più ai capolavori meditati
e sicuri dell’arte ormai matura e cosciente della Rinascita, che alle oscure
origini della poesia popolare. In mezzo all’universale squallore, bisogna però
ricordare che nel 1819 il Foscolo compose il suo saggio Sui /toemi narrativi
e romanzeschi italiani (Opere, X, 135), nel 1828 il Ferrano pubblicò la
Storiti ed analisi degli antichi romanzi di cavalleria, e infine, che nel 1830
Antonio Panizzi scrisse quel suo limpido « Essay on thè romantic narrative
Poetry of thè Italiani- » che va innanzi all’edizione londinese del Boiardo e
dell’Ariosto. — Ma quale significato, quale importanza ebbero questi lavori
nella vita della nazione ? E sono paragonabili questi studi di pochi uomini
solitari, queste troppo rapide intuizioni — quasi lampeggiamenti d'un pen¬
siero, che rischiarerà più tardi il uostro orizzonte — con l’opera gigantesca
del Tieck, degli Schlegel, dei Grimm e dei romantici d’oltralpe?
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
159
poesia medievale, si fecero senz’altro seguaci degli stranieri ed
applaudirono a queU’usurpazione (i). E poi invece di ritemprare
la nostra poesia nell’onda fresca della letteratura delle origini,
popolarono la nostra fantasia di cose e personaggi a noi stra¬
nieri, bardi, selve, upupe e gufi. Dettata da un equivoco, la
nostra poesia romantica fu poesia di maniera, nutrita di insin¬
cerità. Lo studio del nostro medio evo comincia assai tardi,
quando l’era poetica e creatrice del romanticismo à finita, ed
incomincia la seconda era, quella della filologia e dello storicismo.
Ora è forse troppo tardi. La nostra avita leggenda sarà studio
di eruditi, amore appassionato di pochi sognatori solitari, ma non
rientrerà forse mai più nella vita fantastica della poesia ita¬
liana. Noi non avremo un Uhland, noi non avremo un Wagner.
Per questo io vorrei che la mia parola fosse in questo mo¬
mento più sonora e piii vasta delle nostre consuete parole. E
fosse la voce bronzea d’ una campana secolare, ora eh’ io dalla
chiostra di queste pagine dischiudo l’eroica cavalcata delle Fate,
il corteo prodigioso delle lontane leggende del popolo d'Italia.
Ezio Levi.
(1) Avrebbero mai immaginato i nostri facili ammiratori d’ogni importa¬
zione straniera che la leggenda di L<uly Godiva cantata da Tennyaon è pur
quella del cantare fiorentino di Gismirante e che anche in una nostra leg¬
genda, nel Gibello, si trova uno dei tratti più caratteristici della leggenda
del cavaliere del cigno, cioè «li Lohenyrin ?
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160
E. LIVI
APPENDICE
ai. cap. Il (l cantastorie).
Un giullare del Trecento: Antonio da Verona.
Alle « provvigioni » del comune di Firenze riguardanti can¬
terini e istrioni, fatte conoscere dal Novati ed ora rievocate uel
secondo capitolo di questo volume, credo opportuno aggiunger
questa curiosissima lettera, che si conserva nel cod. 3221 della
Biblioteca Palatina di Vienna, c. 181 b. Il codice è di prove¬
nienza bolognese ed appartiene ai primi anni del secolo XV o
agli ultimi del XIV.
Litera familiaritati» factn }>er domino» Priore» Florentie cuidam hist rioni.
Priores artium et Vexillifer Iustitie populi et comuni» Florentie Universis
et singulis, ad quos hec nostra rescripta pervenire contigerit, debitam maio-
ribus reverentiam, reliquis vero salatem et omnibus prosperitatem ac felices ad
vota successus. Cum infinita» artes mortalium genus invenerit, quarum partem
fore necessaria», partem utilitatem afferre et aliquas honeste recreationis de-
lectationem gignere videamus, harum ultimarum non omnes decet esse cul-
tores [nell'interi.: amatore»], sed illos [scilicet : decet esse cultores] precipue
quos adeo virtutis habitus centra comunem modum evexit, quod ipsorum in¬
tuita non plus quam deceat offerantur, quosque merita supernique muneris
dispositi») tali collocavit in statu, quod cum aliis provident, circumvolitan-
tium occupationum strepitu comprimuntur, nani nisi multotiens alicuius nove
voluptatis relaxentur alludi» crescentibus mentium nubibus, non solum tar-
diores ad incuinbentium expeditiones, sedetiam plerumque minus utiles red-
dentur. Hincantiquorum regum et principum more receptum est,ut musicum
melos tant ore, tumfistulis tum resultantibus tìdibus regiis conviviis
audiretur. Hinc histrionum non recusata comitas et admissa iam omnium
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-=eftBAN A-C H AM PAI GN—
1 CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
161
moribus et gcsticulationum muk-ebris varietà», et exliilarati principimi animi
vegetiores ad agibilia convertantur. Kx quo nomini videri debet indignimi
si viruin artis ludicre cetui familiarium nostromi» duximus aggregandum.
Noveriti» itaque quod Magistrum Anthonium de Verona, virum equidem
in agilitate inanuuin magiearum illusionum iniruni imitatore!» et aspicientiuni
•oculorum aciem stupenda eeleritate, dum ea cimi quibus ludit eft'ert. permutat
invisibiliterque recondit, frustrantem et aliorum plurium ludorum celeber-
riinum artiticem et inagistrum, inter alio» familiares nostri palatii feeimus
annotari. Et ob id ipsum cuntis tenore presentiuni literarum quas eidem in
huius rei testimonium tradi fecimus comendamus.
ai. CAI'. V (Il bel Gherardino).
La bibliografia completa delle stampe e dei manoscritti delle
versioni inglesi del lai di Lanval è data da Anna IIunt Bil-
lixgs, A guide lo thè middle Enolisti Metrica!. Romance #,
New York, 1901 [Yale Studies in Englisli, voi. IXj, pp. 144-159.
Quanto a Parthenopeus de Blois, il Dunlop (IIistori/ of Prose
fiction, new ed. by H. Wilson, London, 1906, voi. I, pp. 406
e sgg.) afferma che la versione iberica originale è la catalana
(t a ediz. : Tarragona, 1488) e la castigliana quella clic ne è de¬
rivata (1* ediz.: Alcalà, 1513). Tutto il contrario riferisce M. Me-
néndez y Pelayo, Origenes de la Novela, Madrid, 1905, voi. I.
p. cxLvm. Secondo il Menèndez y Pelayo l’edizione originale
sarebbe appunto quella castigliana di Alcalà de Henares, 1513.
e da essa proverrebbe quella catalana di Tarragona, 1588 (e
non 1488): « A$y comen^a la generai bistorta del esfor^at ca-
valler Partinobles compte de Bles, novament traduyda de llengua
castellana en la nostra catalana ».
Intorno alla saga di Parténopeus, e al poema francese, si ebbe
nel 1901 un libro complessivo, che la critica non giudicò sod¬
disfacente: M. Kawczynki, Partenopea w de Blois , poernat fran-
i ruschi z wiehu XII; streszczenic , rozbiòr i ohja&nienie , Cra¬
covia, 1901 | Bollettino dell’Accad. delle Scienze di Cracovia,
n. XVIII|. Secondo queste ricerche il poemetto francese sarebbe
stato composto a Blois nel 1153; ma W. Foerstcr ha dimo¬
strate infondate quelle asserzioni; cfr. Litteralurblatt fur gemi,
und roman. Philologie, voi. XXIII (1902), pp. 28-33.
Giornale storico - Suppl. n” 16 .
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162
K. j.f.vi
ai. evi*. VII (Liombruno).
Alla leggenda di Liombruno accenna probabilmente anche
l’Ariosto nei Cinque Canti. Enumerando le Fate nel 1 canto
(ott. 26), l’Ariosto ricorda anche l amica di Liombruno, Aquilina:
poi l'Aquilina e poi la Silvanella.
poi la Montana e poi quella dal Corso,
la Fata Bianca e la Bruna sorella...
Cfr. L. Ariosto, Ojtere minori in verso e in prosa ordinate e
annotate per cura di F. L. Polidori, Firenze, 1857, voi. I. p. 9.
Il nome di « Liombruno » entrò nel Quattrocento a far parte
dell’onomastica italiana; ricorderò quel bizzarro pittore manto¬
vano Lorenzo Liombruno de’ Leombini, che apparteneva alla
corte dei Gonzaga (1489-1537).
ai. evi*. Vili (Tre giovani disperati).
Ludwig Tieck, entusiasta d’ogni forma spontanea ed ingenua
«l’arte, tra gli infiniti temi leggendari che rinnovò e rinfresco,
«•lesse anche la leggenda di Fortunato. Nel 1815-16 ne fece un
dramma in cinque atti : Fortunat, Erster Theil, Fin Maerchen
in fiinf Aufziigen. La bibliografia del libretto popolare tedesco
del Cinquecento, Fortnnatus, ò data da K. Goedeke, Grundriss
zur Gesc/t. (ter deutschen Dichtung *, voi. I, p. 354.
Per il racconto dei Gesta Iiomanorum , cfr. Die « Gesta
nomano rum » noeti der Innsbrueher Ilandschrift coni
.1 altre 1342 und vier Munchener ffss. hgg. von \V. Dick, Er-
langen, 1890 [Erlanger Beitràge zur Englische Philol., n° V1I|.
pp. 94 e sgg. (cap. CXLVII).
ai. cai». XIV (La regina d’Oriente).
Appena giunge a Roma, la regin
nel «castello della milizia» (I, ott.
a d’Oriente viene ospitata
36). L'imperatore, che va-
%
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
16:*
fileggia tristi disegni, rimprovera il maestro de' cavalieri che
ha collocato la corte d’Oriente in luogo cosi munito e terribile:
E disseti : — Tu hai molto fallito,
che la reina ha' messa in tal fortezza.
Intatti il « palazzo » o « castello delle milizie » era uno dei
più formidabili editici della Roma medievale; esso giganteggiava
sull’intera città, offrendo « al popolo fecondo argomento di favo¬
lose istorie ». Le famiglie magnatizie se ne disputarono il pos¬
sesso, poiché dall’alto di quelle mura ciclopiche si dominava
l’immensa distesa di Roma. La torre, che ancor oggi ci appare
una mole gigantesca, era nel medio evo assai più colossale;
essa fu mozzata da un terremoto nel 1348. Anche nel cantare
di Florio e Biancifiore i nobili genitori di Biancofiore abitano
« nel palazzo della milizia » (st. 3“). Cfr. per tutto ciò Y. Cre¬
scisi, Il cantare di Fiorio e Biotici fiore, Bologna, 1880, voi. 1.
p. 107 e sgg. ; voi. II, pp. 06 e 245.
Giornale otorico — Suppl. n* 16 .
11 *
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i nsr dici
1. Indice dei capoverbi dei
CANTARI.
Benché pe' tempi t ('abbia, Sif/uor mio , lieg. (l’Oriente, cant. 4°.
Cavalieri e donzelli e mercatanti, Mad. Elena.
Celestiale eterna maiestade, Reg. (l’Oriente, cant. 2°.
Colui che da Giovanni ebbe il battemmo, Tre giovani disperati.
Divina maestà, superna altezza, Gismirante, cant. 2°.
Imperador de' regni sempiterni, Lioinbruno, cant. 2°.
Intendete me ora tutti quindi, Pulzella gaia, cant. 1°.
I' priego Cristo padre onnipotente , Gismirante, cant. 1° e Bruto di Bret¬
tagna (1).
I' priego Iddio che ufi no a qui m'ha dato, Reg. d’Oriente, cant. .*1°.
Io truovo d'una donna di Milano. Mad. Lionessa.
4
Ij) re Artu al cavaiier parlòe. Pulzella gaia, cant. 2°.
O Gesù Cristo, figlino1 di Maria, Bel Gherardino, cant. 1°.
O gloriosa, o vergine pulzella, Donna del Vergili.
O gloriosa vergine pulcelìa, Gibello.
Onnipotente Dio che ìiel del stai, Liombruno, cant. 1°.
O padre, o figlio, o spirito santo, Bel Gherardino, cant. 2°.
O sacre, o sante, o gloriose muse, Cerbi no.
Superna maestà, da cui procede, Beg. d’Oriente, cant. 1°.
(1) Cfr. qui addietro pp. 11$.
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16 <>
K. LEVI
2. Indice analitico (1)
Albertano da Breccia, 109.
Altissimo (Cristoforo di Giovanni da Firenze), 2, 20,81, 153; è l’autore del
( 'evitino, 153 sgg.
Ancelet, scudiero di Parthenopeus de Blois, 34.
Andrea Cappellano. — Versioni italiane del Liber amoris, 109; tratto del
Liber che £ fonte del Gismirante, 100; capitolo, che è fonte del cant.
di Bruto, 103.
Andrea ila Firenze, cantastorie, 8.
Andrea di Goto daU’Ancisa, cantastorie lucchese, 11.
• Angicourt |d’) Perrin, presunto autore della Chastelaine de Vergij, 69.
Animali riconoscenti. — Cfr. Leggenda degli animali.
Ansideo re di Valenza, personaggio della Bella Cumilia , 133.
Antonio da Bacchereto, 19.
— di Guido, cantastorie fiorentino, 2, 19.
— di Pietro di Friano, referendario fiorentino, 18.
— (di) Pucino da Pisa, 15.
Apugliese; cfr. Ruggieri.
Aquilina, amante di Liombruno, 46; è cit. dall’Ariosto nei Cinque Ca ì iti) 162.
Argogliosa. amante di (libello, 55, 81, 82 e segg.
Bambelina, amante di Amadio nel cant. della Bella Camino, 134.
Randello Matteo — Nov. IV. 5, p. 74.
Barberino (da) Andrea, 19, 18.
— (da) Francesco, 9.
Bel Gheranlino, 26 e sgg.; data, 27 ; autore, 28 ; argom., 29.
Bella Camilla , origine, 133; fonte, 137; imitazione dei cantari del Pucci, 136.
Bellicies, innamorata di Tristano e suicida per amore, 78.
Benuceio barbiere, canterino di Firenze, 18.
Boccaccio: nel Corltaccio cita il cantare di (ìherardino, 27; enumera altri
cantari, 4. — Uecamer ., II. 9; p. 142; III. 10, p. 69; IV. 4, p. 149; IV.
9, p. 70.
Bologna: vi si cantano istorie nel trivio di Porta Ravignana, 6; e nella
Piazza del Podestà, 5.
Bonciani, Antonio di Cola, 19.
(1) Il num. indica la pagina.
«
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
167
Braviate, città capitale ili Tarsiano, «cena «Iella leggetela «li (libello, 81.
Broinpton Giovanni, 97.
Bruto di Bretagna, 101 e sgg.; fonte, 108; ottava iniziale uguale a quella
«li Gismirante, 113; ottava tinaie, 112.
Buonarroti (de’) Casa: il ritratto «li Raffaello (n.XVI) «i suppone sia invece
una rappresentazione della leggenda della donna del Vergili, 67.
Burletta «Iella Diserta, amante della Gaia pulzella. 45.
Cambragia, innamorata di Aniideo nella Bella Camilla, 134.
Cantare dei cantari, 23.
Cavaliere del Cigno; cfr. Leggenda.
Cerbino, 149; nell’onomastica italiana dei secoli XIII-XIV, 151.
Cluutelaine de Vergy, 62. Uy?4*ty
Cliecco di Gherardo, referendario fiorentino, 18. „ v" lhL
UNiVUfòJTy or ILuHUiS
Dati Gregorio cita nella Cron. la Regina ^l’Oriente, 123.
Davanzino (li Giovanni, proprietario di un codice del Gherardino, 26.
Drusolina: storia di I>. nel Ld>ro di Fiora vante e nei Reali <li Francia, 89.
FI e pia (Madonna), 140 e sgg.
EIcpui imperatrice , 148.
Fspinelo, romanza spagnuola affine per Pargomento al (ribello, 86.
Fata bianca. 29.
Feliciano Antiquario, autore della novella Justa Victoria , 144.
Ferrara (da) M.° Antonio; due sue terzine cit. in Liombruno, 57.
Ferrari Severino cita Liombruno in una poesia, 52.
Fioravante : Libro di, 81, 88, 89.
Firenze: piazza di S. Martino del Vescovo, 1, 2, 19; palazzo Davanzati, 73;
casa Buonarroti, 67; i canterini di F., 17.
Fortunatu *, 60; dramma di L. Tieck, 162.
Gale re nt copule de li retruine (roman de), 85.
Galvano, innamorato della Pulzella gaia, 43.
Genitrisse, città della regina Argogliosa, 82.
Geronimo detto Puccio, canterino, 18.
Gesta Romanorum , 58, 61 ; data, 61 ; il ms. più antico, 62, 162.
(ribello , 81 ; data, 90.
Giovanni di Giorgio, 18.
Gismirante, argomento, 93; fonti, 99; versificazione, 100.
Giullari, 6 e segg.
Godi va (Lady), 96 e sgg.
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168
E. LEVI
Grillili) (Fratelli), Kinder unti Hammdrehen, 49, 60.
Griselda : cfr. Leggenda di.
Guernieri, duca di Borgogna, 79.
Guglielmo d’Oringa, 8.
Guidaloste da Pistoia, giullare, 12.
Higdon Iianulfo, 97.
Histoire de Fortunatitx, 60.
Huon de Bordeaux, 129.
Ide et Olive (chanson d’), fonte della Re (/ina d'Oriente • della Bella Ca¬
milla, 129.
Istoria di tre giovani disperati, 57.
Kirkup, codice, 101.
Knigton Enrico, 97.
Lais: Fra ùnte, 83; sue propaggini italiane, 84.
— Graelent, fonte ilei Bel Gheroni., 30; e della Balzella paia, 39.
— Lanca!, 83; episodio tinaie, 41 ; versioni inglesi, 161 ; iberiche, 161; fonte
di Balzella paia, 39; di Liomhruno, 47; del Bel Gherard., 30 e sgg.
Leggenda degli animali riconoscenti nella letter. ital., 98; del Cava¬
liere del Cigno, 87; di Fortunat us, 60; di Lady Godi va, 96
e sgg.; di Griselda, 86; di Ottaviano, 88; della ragazza guer¬
riera. 127 ; della verga di Odino, 138.
Liomhruno. argom. del cantare, 46; nelle tradizioni jwpolari italiane, 51;
citato nella letterat. ital. dei sec. XVI-XIX, 52 e 162; le ottave 40-41
sono imitate dal cant. di M. Fletta, 141.
Lionessa, 114.
Lippi Lorenzo, cita la Rep. (l'Oriente nel Malmantile, 124.
Lope de Yega, Felix, comm. Jxts porcele8 de Marcia, 86.
Lucca: piazza di S. Michele, 11; canterini lucchesi, 10 e sgg.; M.° Angelo
da Lucca, 12.
Malapipi : cfr. Sala di.
Mambriano, fratello della bella Camilla, 134.
Marco bello, scudiero di Gherardino, 29; corrisponde ad Aucelet nel Barth.
de Blois, 29.
Margherita di Navarra. nov. LXX àe\YHeptam/ron, 74.
Maria di Francia, 24 e sgg.; cfr. Lais.
Mastrucei Filippo, autore di una frottola di Liomhruno, 52.
Melior, amante di Parthenopeus de Blois, 34.
Milione di Marco Polo, fonte della Rep. (l'Oriente, 139.
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I CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
109
Napoli: cantastorie napolet. citati in un dialogo del Puntano, 17.
Narbona: allusione alle storie narbonesi nel cant. di M. Elma, 141.
Niccolò Cieco da Arezzo, 19.
Ottonano: v. Leggenda.
Ovidio: episodio delle Metani, die ha riscontro nelle leggende italiane, 128.
Pagano F. M., Il Gerbino tragedia, 151.
Palaus, castello della Fata Morgana, 44 e sgg.
Palazzo Davanzali : affreschi del sec. XIV, 78.
Parthenopeus de Bini a, 32 e sgg.; diffusione in Europa, 35-161; codice dei
(ìonzaga, 36; fonte del Bel Gherardino, 32; e della Rey. d'Oriente 9 138.
Pecorone, Xov. IV. 1, 115.
Perugia: canterini perug., 16.
Pier Canterino (Pietro di Viviano da Strove), 14; aut. della Beila Camilla, 133.
Pisa: giulleria a P., 15; Pucino da P., 15.
Poggibonsi (da) Niccolò, 139.
Poitiers , Comte de (roman du), 143.
Pula (da) Sergio, canterino di Firenze, 18.
Pome dei Bei Fioretto , vi è cit. la donna del Vergili, 72.
Puntano, 3, 17.
Pucci Antonio: cantari a lui debitamente e indebitamente attribuiti, 77, 92;
Fiorita di varie storie (zibaldone), 101, 110.
Puleella del Lago, sorella della Fata Morgana. 44.
Pulzella gaia, 36 e sgg.; origine. 37; argon., *18: fonti, 39; è cit. nella Sala
di Malayiyi, 37.
Reali di Francia, episodio di Prusolina, 88.
Refiina (COriente, 121; data, 122; stampe e mss., 123; fonti, 125.
Ricca, giullare, 18.
Roberto dal Monte S. Michele, Cron. y 149.
Romano (da) Cecilia, 120.
— Ezzelino, tìglio di Mad. Immessa, 120.
Rosciate (da) Alberico, 9.
Rose (roman de la) oh de Guillaume de Dole, 146.
Ruggieri A pugliese, 13 e sgg.
Sabelo Michiel, cita nel Filogeo la donna del Verziere, 71.
Sala di Midagigi, data, 37; cita la donna del Verziere, 71: Pulzella gaia e
la Regina d’Oriente, 37, 122.
Salomone nella leggenda medievale, 118.
Schlegel A. W., 157.
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170
K. LEVI
Shakespeare: Cymbeline e le leggende italiane corrispondenti, 148; Tht Mer¬
co nt of Yenice, 116.
Siena: gialleria sanese, 12 e sgg.; cfr. Pier Canterino.
Tarsiano, re di Bravisse, personaggio del (ribello, 81 e sgg.
Tavola Rifonda’, vi è ricordata la Gaia Pulcella, 48.
Tieck Ludovico, riduce a dramma la leggenda dei tre giovani disperati. 162.
Trebinonna (la ’mperatricc) nov. siciliana della leggenda di Liombruno, 51.
Tristano ricerca il ca]>ello doro di Isotta; uguale tratto è nel cant. di Gi¬
orni r ante, 98.
— (il) riccard. riferisce la leggenda di Bellicies, 78.
l'rraques, sorella di Mélior nel Partii, de Bioiti, 34.
Vanto (il) nella letteratura leggendaria italiana, 141 ; vanto di Liombruno, 47.
Verazzano (da) Fruosino, trascrittore di cantari, 15.
Vergili. — La donna (del), cantare 62 e sgg.; data di esso,80; codici, 75;
edizione, 75; passi .corrispondenti nel cantare di Cerbmo, 155; novella
valdostana del sec. XIV, 80. — Cfr. la Chantelaiue de Veryy.
Verino Michele, 2.
Verona (da) Antonio, giullare, 160.
Viola Bianca, innamorata di Amadio nella Bella Camilla, 1:14.
Violette (roman de la), 143.
Viviano (di) Pietro; cfr. Pier Canterino.
Volterra (da) Michelangelo di Cristoforo, canterino, 15
Westminster (di) Matteo, 97.
Witrzburg (da) Corrado, autore del romanzo Pnrtonopier toni Meliur, 35.
— (da) Rupreeht, 145.
Zopparino di Benincasa, cantastorie bolognese del Trecento, 8.
3. Indice delle tavole fuori testo.
I. S. Martino del Vescovo (da un disegno a penna di Marco di Bartolommeo
Postichi nel Seminario di Firenze, 1425).
II. Il cantastorie (da due stampe del sec. XVI della Bibl. Marciana).
ITI. La leggenda della donna del Vergili (Messer Guglielmo tentato dalla
duchessa di Borgogna durante una partita a scacchi; affresco del se¬
colo XIV nel palazzo Davanzati di Firenze).
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1 CANTARI LEGGENDARI ITALIANI
171
4. Indice dei capitoli.
1. Introduzione .......
2. I cantastorie ......
3. I cantari ......
4. Il « Fiore di leggende »...
5. Il Bel Gherardino .
ti. Pulzella gaia.
7. Liombruno.
8. Istoria di tre giovani disperati e di tre fate
1). La donna del Vergili.
10. Gibello.
11. Gismirante.
12. Bruto di Brettagna .
13. Madonna Lionessa.
14. La Regina d’Oriente ....
15. Madonna Elena.
16. Cerbino..
17. Conclusione.
Appendice.
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SUPPLEMENTO N" 16.
DELLA
DIRETTO E REDATTO
DA
FRANCESCO NOVATI e RODOLFO RENIER
TORINO
Casa Editrice
ERMANNO LOESOHER
1914.
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Xon essendoci pervenuta in tempo per quest’anno la
preannunciata illustrazione al testo inserito nel Supplemento
n* 15, abbiamo creduto opportuno di far precedere nel Sup¬
plemento n° 16 rindagine critica e comparativa del profes-
sore tizio Levi.
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La Direzione.
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giornale storico
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DELLA LETTERATURA ITALIANA
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dirotto e redatto da
F. NOVATl e li. REN1ER
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Si pubblica dal 1883 in fascicoli bimestrali di circa IO fogli di stampa ciascuno,
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in modo da formare ogni anno due volumi.
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Le associazioni, a pagamento anticipato, si ricevono presso la Casa
editrice ERMANNO LOESCHER di Torino e presso tutti i principali
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N" 4(1901) , 5.—, id. N® 12 (1910) , IO.—
N° 5 (1902) , 5.—, id. N® 13-14 (1911-912) „ 1S —
N® 6 (1903) , 4,50, id. N® 15 (1913) , 10.-
N® 7 (1904) „ 5.—, . id. N® 16 (1914) , 8.—‘
Prezzo complessivo delle XXXII annate pubblicate (Voli. 1~64) e
|i|v - dei 16 Supplementi .L- 1®®®*
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Indice del primi 50 volami - Parte It Indice degli scritti firmati.
Parte II: Indice della Bibliografia. . . ...... . . , L.
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AL
GIORNALE STORICO DELLA LETTERATURA ITALIANA
-♦ 4 ♦
Della serie dei Supplementi, accolta con manifesti
sei)ni di gradimento dagli studiosi\ sono finora uscite in luce
le seguenti dispense:
1° (anno 1808). — E. BERTANA, Il Parini tra i poeti giocosi del settecento.
— C. DE LOLLIS, Sul canzoniere di Chiaro Daranzati . — G. PERSICO
CAVALCANTI, Il epistolario del Gravina . — R. MURARI, Mariti Sana do
e Laura Hrenzoni-Schioppo. — L. 5.
2° (anno 1800). — E. LOVARINI, Notizie sui parenti e sulla vita del Ruzzante.
— C. CESSI, Notizie intorno a Francesco Unisoni poeta laureato . —
A. NERI, Giuseppe Baretti e i gesuiti. — L. 4,50#
3° (anno 1000). — A. SALZA, Francesco Coppetta dei Beccuti , poeta perugino
del secolo XVI. — L. 5»
4° (anno 1001). — E. BERTANA, Il teatro tragico italiano del secolo XY'III
prima dell*Alfieri. — L. 5»
5° (anno 1002). — V. CIAN, Vivaldo Belcalzer e Venciclopedismo italiano delle
origini . — L. 5.
0° (anno 1003). — G. BOFFITO, Il * De principiti astrologate * di Cecco d'Ascoli
nuovamente scoperto ed illustrato. — R. SABBADINI, Un biennio umanistico
(1425-1420) illustrato con nuovi documenti. — L. 4,50.
7° (anno 1004). — A. GALLETTI, L'opera di Viltor Hugo tirila letteratura
italiana. — L. 5#
8° (anno 1005). — A. FARINELLI, Appunti su Dante in Ispngna nell'età media.
— F. CAVICCHI, Intorno al Tibaldeo. — F. PASINI, Un plagio a danno
di Vincenzo Monti. — L. 5.
0° (anno 1000). — G. GALLI, / disciplinati dell Umbria del 1200 e le loro
laudi. — L. 5.
10’ e 11’ (anno 1007-1908).— E. SOLMI, Le fonti dei manoscritti di Leonardo
da Vinci. — L. 15.
12° (anno 1910). — F. FLAMINI, Tra Vaichiusa ed Avignone. — L. 10«
13° e 14 u (anno 1011-1012). — L. PICCIONI, Giuseppe Buvetti prima della
‘Frusta letteraria „ (1719-1760): — L. 18.
15° anno 1913). — S. DEBENEDETTI, Il * sollazzo „ e il “ saporetto „ con
altre rime di Simotte Prudenzani d'Orvieto. — L. 10.
10° (anno 1014) — E. LE VI, I cantari let/gendari ilei jwpvlo italiano nei secoli
XIV e XV. — L. 8.
TORINO — Casa Editrice ERMANNO LO ESCHER — TORINO
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Pubblicazioni della stessa Casa Editrice .
FOSCOLO
MANZONI, LEOPARDI
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ARTURO ORAF
AGGIUNTOVI
PRERAFFAELLITI, SIMBOLISTI EO ESTETI
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TORINO — Casa Editrice ERMANNO LOESCHER — TORINO
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UNtvtftiiflr Of ILUNUiS
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